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Cassazione, un distinguo (pesante) sulle polizze vita

Nel mirino i contratti di ramo III: se non garantiscono la restituzione del capitale, allora sono prodotti di investimento

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Una polizza vita è da considerarsi tale solo se garantisce la restituzione del capitale investito: in caso contrario, si tratta di un semplice prodotto di investimento. Lo ha stabilito recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10.333/2018, scatenando un vero e proprio polverone fra gli operatori del settore. Stando alla decisione della Suprema Corte, si possono annoverare fra le polizze vita solo quei contratti in cui il rischio dell’assicurato è assunto dall’assicuratore.
Nel mirino sono finite immediatamente le polizze di ramo III, già oggetto di un recente monito dell’Ivass perché, scaricando sostanzialmente il rischio sul consumatore, si configurano come soluzioni “molto finanziarie e poco assicurative” e finiscono per snaturare “l’essenza del prodotto assicurativo”. Negli ultimi anni questo genere di prodotti ha registrato una crescita impetuosa: nel 2016 valevano 24 miliardi di euro, mentre a febbraio si erano intestate un terzo della nuova produzione vita con un giro d’affari di 2,7 miliardi. Il tutto a discapito delle polizze vita tradizionali, strette fra nuovi vincoli patrimoniali e bassi tassi di interesse.
La distinzione operata dalla Corte di Cassazione rischia di non essere una semplice operazione di facciata: in ballo ci sono vantaggi fiscali ed ereditari tipici delle polizze vita. E che non valgono per i normali prodotti di investimento.

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