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Claims made: cronaca di una morte annunciata?

Dai tribunali arrivano le prime risposte che sembrano avvalorare la tesi che, in luogo di portare certezze, la sentenza delle Sezioni Unite abbia scompaginato ogni sicurezza e apra dubbi interpretativi assai profondi

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Lo avevamo detto, correndo il rischio di passare per infausti preveggenti: la pronuncia delle Sezioni Unite sulla claims made, per quanto accolta con favore dalla maggior parte degli stakeholder, lasciava adombrare sviluppi inquietanti. E gravi, per il mercato dell’assicurazione della Rc.  

E invero quella sentenza, pur chiudendo severamente la porta alle tesi della radicale nullità o della ontologica vessatorietà della clausola, concludeva la propria elaborata motivazione aprendo autentici squarci sulla “tenuta” pratica del modello claims made. Così, secondo le Sezioni Unite, il fatto che la claims non fosse (in termini generali e astratti) invalida non escludeva, e anzi postulava, una sorta di “second opinon del caso concreto”. Ci riferiamo a quello scrutinio di “meritevolezza” che, a detta della Cassazione, ciascun giudice dovrebbe compiere per verificare, volta per volta, se la clausola individui un ambito di copertura equilibrato e sufficientemente protettivo per l’assicurato, anche in considerazione del rapporto di corrispettività tra il perimetro del rischio assunto dalla compagnia e il premio effettivamente pagato. 

Di più, con riferimento alle polizze obbligatorie dei professionisti (quelle in cui la claims trova sistematica applicazione), la Cassazione ha indicato essa stessa la via affermando, senza incertezze, l’incompatibilità della clausola con lo schema causale disegnato dal legislatore. Ciò in quanto quelle coperture, concepite per tutelare (anche e soprattutto) il cliente, hanno una portata protettiva “esterna” e, per ciò solo, dovrebbero esser elaborate secondo il modello loss occurrence (o, comunque, contenere una robusta ultrattattività della garanzia rispetto alla scadenza di contratto).   Appare dunque evidente che, ben al contrario di quanto a prima vista poteva sembrare, la sentenza 9140 del 2016 non rende un grande servizio alla causa della claims made.  Al contrario, in luogo di portare certezze, quella sentenza scompagina ogni sicurezza e apre, nelle applicazioni dei singoli casi concreti, dubbi interpretativi profondi quanto voragini. Il pericolo di una deriva oltranzista nelle corti di merito è dunque serio e tangibile. E ne abbiamo già qualche serissimo esempio.

Tribunale di Treviso: se non c’è postuma la clausola è nulla 
Pesante come un macigno, una recentissima decisione della Corte trevigiana prende posizione sulla validità di una clausola claims che, inserita nella polizza professionale di un avvocato, prevedeva un periodo di retroattività di cinque anni ma nessuna postuma.  
Richiamando testualmente quanto sostenuto dalle Sezioni Unite (e cioè che nelle assicurazioni obbligatorie della copertura della Rc dei professionisti “il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura”) il tribunale di Treviso bolla la clausola di nullità.

Secondo il giudicante, dunque, nel settore delle assicurazioni obbligatorie della responsabilità dei professionisti, l’esplicitazione a livello normativo della finalità di tutela esterna (del terzo danneggiato) della copertura (ex articolo 3, comma 5, lettera e), del dl 138 del 2011) non consente né tollera che la copertura, in deroga alla formulazione codicistica (articolo 1917 del codice civile), sia circoscritta alle sole responsabilità che abbiano dato luogo a richieste risarcitorie formalizzate in corso di contratto. In questo caso, si badi, neppure varrebbe a superare il problema, né a “ribilanciare” la polizza, l’eventuale previsione di un periodo di retroattività, quand’anche addirittura illimitato: una tale pattuizione potrebbe al più riequilibrare il rapporto tra la compagnia e il professionista assicurato ma non sarebbe in alcun modo utile a tutelare gli interessi dei nuovi clienti, del tutto indifferenti alla ripresa di un passato che non li riguarda. Non può disconoscersi che, stante il disposto di legge, tale presa di posizione abbia una sua fondatezza (salvo quel che si dirà in fine circa la possibilità di temperare un tal rigore interpretativo). 
Ben più insidiosa, e certamente meno condivisibile, risulta invece la scelta compiuta da un altro recentissimo precedente di merito. Mi riferisco alla sentenza del tribunale di Milano del 3 giugno 2016, la quale censura bruscamente il regime di operatività temporale previsto da una polizza claims stipulata da un geometra. 

Tribunale di Milano: poco tempo denuncia e risarcimento  
Già commentata criticamente (si veda Insurance Daily del 29 giugno 2016, “La claims made alla prova dei fatti”, di Filippo Martini, scaricabile cliccando qui), tale pronuncia stupisce per la disinvoltura con cui il giudicante, facendo appello allo scrutinio di meritevolezza, sostituisce la clausola pattizia con altra di suo gradimento, niente affatto corrispondente allo schema legale e tale da consentire la “ripresa” (e l’entrata in copertura…) di responsabilità correlate a fatti occorsi negli ultimi dieci anni precedenti alla stipula della polizza.  
La motivazione, che trae ancora una volta linfa dagli spunti offerti dalla Suprema Corte, costituisce singolare espressione di una certa invadenza del sindacato giurisdizionale sull’autonomia privata “…come da tempo chiarito dalla dottrina, l’autonomia negoziale non può essere disancorata dalla natura degli interessi sui quali una data disposizione è destinata a incidere […] Il controllo di meritevolezza degli interessi deve essere condotto, per quel che rileva in questa sede, alla stregua dell’articolo 2 della Costituzione, il quale tutela i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”. 

Orbene, questa, soi disant, irrinunziabile solidarietà negoziale imporrebbe una cooperazione tra i paciscenti tale da non rendere giuridicamente accettabili regolamenti contrattuali eccessivamente sbilanciati, a favore dell’uno o dell’altro. Calandosi poi tra le pieghe del caso concreto, il tribunale di Milano giunge a severamente bocciare la clausola claims made in base alla quale la compagnia coinvolta in giudizio aveva preteso di eccepire l’inoperatività della garanzia.  
Nel caso di specie si trattava di una pattuizione che limitava la “copertura alla sola ipotesi in cui, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il sinistro sia la richiesta di risarcimento”.  Un tal regime temporale è apparso, secondo la Corte meneghina, “del tutto incompatibile proprio con lo schema della responsabilità professionale come quella in esame, nella quale […] è pressoché impossibile che in uno stesso anno si verifichi sia la condotta (o l’omissione) del professionista che la richiesta risarcitoria da parte del terzo danneggiato”. 

Pertanto, anche in considerazione dell’obbligo assicurativo di cui al citato articolo 3, comma 5, lettera e, del dl 138 del 2011 (in verità, ratione temporis, neppure applicabile al caso di specie) il tribunale meneghino ha concluso affermando che “una clausola come quella contenuta nel citato articolo 7, caratterizzata, peraltro, da una spiccata asimmetria informativa […], anche a fronte dell’entità del premio pagato dall’assicurato (pari, nel caso in esame a euro 475 annue) non sia meritevole di tutela e debba, pertanto, essere dichiarata nulla”. 
Di qui, prosegue il giudicante, la necessità di sostituire di diritto (ex articolo 1932, comma 2 del codice civile) la clausola in questione (che derogherebbe la previsione codicistica in senso meno favorevole all’assicurato), con la corrispondente disposizione di legge (costituita dall’articolo 1917, comma 1, c.c.).

Una deriva giustizialista 
Orbene, proprio in quest’ultimo passaggio della sentenza, e negli altri che seguono, si annida una certa deriva giustizialista che sembra andare, davvero, molto al di là dei, di per sé, opinabili solchi lasciati aperti dalle Sezioni Unite. 

Si consideri che: 
- l’articolo 1917, comma 1, c.c. non rientra tra le norme richiamate dall’art. 1932 c.c., ragion per la quale il percorso argomentativo seguito dal tribunale sembra leggermente fuori fuoco;

- nel trarre le dovute conseguenze dalle proprie premesse, il giudice non applica affatto lo schema loss di cui all’articolo 1917 c.c., pretendendo invece di poter far rientrare in garanzia le responsabilità occorse nei dieci anni antecedenti alla stipula del contratto di assicurazione. In sostanza, in luogo dello schema di legge, il tribunale, dando prova di buona inventiva, applica una nuova, diversa e particolarissima claims made, sino ad affermare che “l’inefficacia della clausola relativa alla validità della garanzia debba essere limitata a quella parte della pattuizione che, invece di coprire i rischi verificatesi nei dieci anni precedenti alla stipulazione della polizza, limita la garanzia ai rischi nel descritto limitato periodo temporale”. 
E sulla base di tale assunto, il tribunale fa rientrare in copertura un sinistro, relativo a fatti occorsi quattro anni prima della stipula…(!), che certamente non sarebbe in garanzia neppure laddove si applicasse linearmente la formula act committed di cui all’articolo 1917 c.c..

E ciò, forse, è troppo.

In pericolo l’autonomia negoziale delle parti
Non crediamo che la pronuncia delle Sezioni Unite, pur di per sé opinabile in vari passaggi, volesse davvero far scempio dell’autonomia negoziale, sacrificandola al vaglio di un sindacato di meritevolezza che, inquinato da apprezzamenti personalissimi circa il valore economico delle singole transazioni, rischierebbe di trasformarsi in un mero giudizio di convenienza del contratto, a favore dell’una o dell’altra parte.  
Rimane il fatto che affidare la tenuta della clausola alla scienza del caso concreto e al poco palpabile confine tra ciò che è “meritevole” e ciò che non lo è, costituisce un’insidia al buon svolgimento dell’attività assicurativa: di una attività che, fondata sull’inversione del ciclo produttivo e sulla corretta profilazione del rischio (in funzione della sua tariffazione), dovrebbe esser governata da regole certe e poter contare sul pieno affidamento circa il rispetto dei patti stabiliti all’atto della stipula della polizza. Ciò a maggior ragione in regime di Solvency II.

Il vaglio postumo da parte del giudice, specie se tanto eccentrico quale quello proposto nella citata sentenza del tribunale di Milano, apre invece la breccia a scenari inquietanti e comunque “mobili”, in quanto rimessi a una discrezionalità (quella delle Corti di merito) che neppure sarebbe sindacabile in Cassazione, se adeguatamente motivata.  
La sentenza delle Sezioni Unite 9140 del 2016 perde, dunque, molto del suo pregio proprio nella parte in cui sembra avviare la stura a una giurisprudenza di merito creatrice, quasi legittimandola a surrogare l’autonomia privata e a spingersi ben al di là di quanto il nostro ordinamento, in realtà, parrebbe consentirle. 
Di qui la possibilità di non accoglierla acriticamente, proprio nella parte in cui, in guisa di obiter, sviluppa il tema del “sindacato in concreto” e della “meritevolezza”. 

Se è vero, come è vero, che una clausola claims potrebbe, in alcuni casi, creare pericolose discontinuità di copertura in capo al cliente o, peggio, non rispondere alle sue aspettative di garanzia, è altrettanto vero che ciò non sembra costituire un vizio della clausola in sé, bensì una conseguenza della violazione delle regole di buona fede nel collocamento della polizza. La formula claims, in sé e per sé considerata, si limita a delimitare l’ambito della responsabilità coperta dal contratto; e nulla vieta a chicchessia di circoscriverne a proprio piacimento la portata, a condizione che un rischio, anche se minimo, sopravviva, pena la nullità della polizza ex articolo 1895 c.c..  
Non si comprende, dunque, perché mai dovrebbe esser giudicata come di per sé immeritevole una polizza che ponga a carico della compagnia non l’intero arco della responsabilità potenzialmente assicurabile ma quella sola quota parte che abbia dato luogo a richieste di terzi nel corso dell’annualità assicurata, lasciando in capo al “cliente” i rischi di responsabilità ulteriori e diversi rispetto a quelli dedotti in contratto.

L’importanza della correttezza precontrattuale 
Certo, un tale contratto potrebbe non rispondere alle esigenze di garanzia dell’assicurato e tradursi in una copertura non adeguata alle sue aspettative di rischio; ciò non rimarrebbe senza conseguenze, ma il problema si sposterebbe sul piano della correttezza precontrattuale e del rispetto, da parte dell’impresa o dei suoi intermediari, delle regole della dialettica durante la fase di stipula. Regole che, immanenti al nostro ordinamento (si veda Cassazione 8412 del 24 aprile 2015), trovano nel settore assicurativo una declinazione ancor più specifica negli articoli 183 del Codice delle assicurazioni e 52 del Regolamento Isvap numero 5. In questo senso può sostenersi che la “vendita” di una polizza sbilanciata e non adeguata alle esigenze rappresentate dal cliente trovi la sua naturale sanzione proprio nel risarcimento dei danni derivanti dalla violazione di quegli obblighi precontrattuali di condotta e buona fede o nell’annullamento del contratto, laddove addirittura il cliente possa sostenere che la sua volontà sia stata viziata (per errore o dolo).

Si ricorda, invero, come il possibile squilibrio genetico di un dato rapporto sinallagmatico, lungi dall’imporne a tutti i costi un ribilanciamento postumo (salvo nei casi in cui vi siano spazi per un aggiustamento in via interpretativa o per un’integrazione equitativa, a fronte di un testo carente od oscuro), sia normalmente tollerato dal nostro ordinamento (che ammette, ad esempio, la rescissione del contratto non in ogni caso di squilibrio ma solo al ricorrere dei presupposti di legge).  
È sul piano del rimedio risarcitorio, dunque, che potrebbe, se del caso, giocarsi la partita. Non invece nella rimozione del contratto. E neppure della singola clausola (atipica), la cui pretesa nullità (ex articoli 1322 – 1419 c.c.) dovrebbe dar luogo, secondo la Suprema Corte, all’applicazione dello schema negoziale codicistico di partenza (quello dell’articolo 1917 c.c.).

Quali rimedi per le polizze obbligatorie dei professionisti? 
Se, dunque, vi sono fondate ragioni per resistere a prese di posizioni giudiziali troppo frettolose, come quella del tribunale milanese, assai più delicata appare la questione relativa alle polizze obbligatorie dei professionisti. Qui l’ontologica “immeritevolezza” prefigurata dalle Sezioni Unite, sull’abbrivio di quanto stabilito dal dl 138 del 2011, pare assai più fondata, attesa, lo si ripete, l’esigenza di tutelare, sia pur indirettamente, il patrimonio del cliente danneggiato (al pari, se non addirittura prima, del patrimonio del professionista della cui responsabilità si tratta).  
Il rischio di incorrere in altre sentenze quali quella del tribunale di Treviso, che ha già considerato nulla una claims di un contratto avente a oggetto la copertura della responsabilità di un avvocato,  è dunque più che mai attuale e tangibile.

Rimane, però, una considerazione di fondo. Il settore delle assicurazioni professionali di responsabilità è, certamente, quello maggiormente esposto al rischio di sinistrosità lungolatente; per ciò stesso, integra l’ambito di prevalente applicazione delle clausole claims, considerate dal mercato assicurativo l’unico modo sostenibile per coprire quel rischio. Ciò a maggior ragione in considerazione del regime di Solvency II, la cui operatività imporrà alle imprese di non assumere, se non a fronte di capitalizzazioni esorbitanti, rischi di lungo periodo non adeguatamente prevedibili. 
Il che potrebbe portare la maggior parte dei player ad abbandonare il mercato. Se così fosse, naturalmente, l’auspicato sostegno assicurativo obbligatorio tanto voluto dal legislatore, verrebbe in fatto totalmente depotenziato, quanto non addirittura azzerato.   

Alla ricerca di un compromesso 
Ebbene: a fronte di tale contraddizione in termini, è possibile individuare una soluzione che contemperi entrambe le esigenze sottese al buon funzionamento dello strumento assicurativo obbligatorio? Evidentemente la soluzione risiede nel trovare una linea di compromesso tra l’interesse del cliente (di poter contare su di una copertura che si estenda sino allo spirare dei termini prescrizionali del suo eventuale diritto risarcitorio) e quello dell’impresa, di poter assumere il rischio di responsabilità a condizioni effettivamente sostenibili (rimanendo sullo sfondo, naturalmente, l’interesse dell’assicurato di adempiere al proprio obbligo a condizioni di prezzo accessibili).  Ci pare che tal bilanciamento possa trovarsi in una soluzione che, pur derogando a quella della act committed (di cui all’articolo 1917 c.c.), preveda comunque un periodo di postuma, tale da fornire un adeguato ombrello protettivo nel tempo.  

Un modello? La polizza per gli intermediari 
Quale, dunque, la misura di tale ultrattività che, inserita in una polizza claims, potrebbe considerarsi ragionevolmente equilibrata, nell’interesse di tutte le parti coinvolte? 
Riteniamo che già esista, nel nostro ordinamento, un parametro che potrebbe esser preso in considerazione quale criterio di riferimento: il pensiero corre alle polizze obbligatorie degli intermediari di assicurazione, così come disciplinate dal combinato disposto degli articoli 110/112, comma 3, del Cap e dagli articolo 11 e 15 del Regolamento 5 di Isvap. Secondo tale binomio dispositivo, infatti, la copertura dovrebbe estendersi sino a garantire (almeno) le richieste risarcitorie pervenute entro il triennio successivo alla scadenza della polizza. 
E poiché tale obbligo assicurativo assolve anch’esso a finalità di protezione dei potenziali terzi danneggiati, può fondatamente ritenersi che il legislatore (ancorché in sede attuativa) abbia già effettuato una propria selezione/valutazione del limite entro il quale debba essere garantita la perduranza della garanzia, a tutela del cliente. Limite al di là del quale, di converso, tornerebbe a prevalere la piena autonomia negoziale delle parti. 

In regime di Solvency II, una posizione più rigorosa e non soggetta ad alcun limite rischierebbe, lo abbiamo già detto, di trasformare l’obbligo assicurativo dei professionisti (in assenza di obbligo a contrarre) in una mera chimera; o, peggio, in un motivo di allontanamento dalla professione per chi non si trovi, per ragioni di prezzo o per l’inesistenza di un mercato disponibile, in condizione di assolverlo. 
In conclusione, dunque, una postuma triennale potrebbe costituire il punto di equilibrio attorno al quale garantire la tenuta del futuro mercato (ed il punto di riferimento su cui imbastire quel giudizio di meritevolezza a cui le Sezioni Unite rinviano). 

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