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Covid-19, giustizia, responsabilità e assicurazioni: tutto quello che c’è da sapere

Pubblichiamo in due parti un lungo e interessante approfondimento, a cura degli avvocati Filippo Martini e Marco Rodolfi, sugli effetti della pandemia da Sars-CoV-2 sul mondo giuridico, su quello legale-sanitario, su quello lavorativo e sui principali ambiti assicurativi. Un’occasione di formazione e di riflessione

Covid-19, giustizia, responsabilità e assicurazioni: tutto quello che c’è da sapere hp_vert_img
PRIMA PARTE  

La realtà epidemiologica che si è riversata nella nostra esistenza dall’inizio dell’anno ha avuto, e sta avendo, riflessi per molti aspetti non preventivabili, almeno per le dimensioni e per i mutamenti indotti in tutti i principali settori che governano la nostra comune esistenza.
Nessuno poteva immaginare che il nostro Paese avrebbe dovuto affrontare una crisi sanitaria ed economica di tale portata. 
Certamente il mondo economico subirà poderosamente gli effetti di questa contrazione forzata di attività così vitali in una libera economia, e i riflessi dei profili civilistici coinvolti si registreranno anche nel mondo assicurativo e giudiziario, in una misura non sempre prevedibile. 
Eppure riteniamo possa essere il momento per una prima riflessione generale sui settori d’impatto di questa realtà drammatica.
Il convegno annuale organizzato con la compagnia di riassicurazione GenRe (che ha avuto ampio seguito, benché veicolato attraverso una piattaforma digitale) è stato già occasione di una approfondita analisi sugli scenari del futuro prossimo a venire (ne ha parlato questo giornale nell’edizione del 25 settembre scorso). 
I temi affrontati in quella sede sono altrettanti snodi reali che già producono effetti nel mondo giuridico e che attengono ai riflessi di quanto accaduto sui canoni della responsabilità civile sanitaria, sul mondo del lavoro e sui principali settori assicurativi. 

Tre campi di analisi
I filoni d’interesse primario, per il mondo giuridico, sono sostanzialmente tre. 
Un primo approfondimento andrà fatto sulla portata che l’epidemia avrà sulla struttura della responsabilità civile e penale, dopo anni in cui il settore si era interrogato su questioni di assoluto rilievo come la causalità, la natura della prestazione sanitaria (se obbligazione di mezzi o di risultato), sulla natura della responsabilità dell’operatore (se contrattuale o extracontrattuale) e sulla portata delle linee guida e delle buone pratiche sanitarie nella valutazione della condotta del singolo professionista nel caso concreto.  
Ebbene, tutti questi canoni centrali della disciplina della responsabilità si sono dovuti sottoporre, negli ultimi mesi, a una malattia dalla portata mondiale non contenibile nella diffusione del contagio, priva di una preesistente costruzione epidemiologica e combattuta in assenza di linee guida già collaudate e condivise dalle società scientifiche mondiali. 
Al tempo stesso, verrà il momento di valutare come la grave emergenza sanitaria si sia “specchiata” sui canoni della responsabilità introdotti solo di recente con la nota legge n. 24/2017 (cd legge Gelli-Bianco) che ha recentemente modificato anche la struttura del processo civile sanitario. 
Fra i primi attori della nostra storia recente, i medici, chiamati da mesi a un massimo sacrificio sotto ogni profilo, anche personale, appaiono oggi ancor di più l’avanguardia di un servizio sanitario che ha mostrato crepe, ma al tempo stesso le potenzialità del sistema di tutela nella sicurezza delle cure verso la collettività, sottoposto a uno stress test senza precedenti. 
Come si sa, la legge n. 24/2017 ha disposto che la colpa dell’operatore dipendente o strutturato nell’azienda sanitaria risponda solo in caso di comprovata sua condotta negligente, imprudente o imperita secondo i canoni della responsabilità extracontrattuale. 
Certamente potrà risultare arduo identificare, per il vero, degli specifici indici di responsabilità in una gestione emergenziale della pandemia, dove l’assenza di linee guida chiare e l’impatto massivo del fenomeno sulle strutture e sulla loro organizzazione, potranno portare a responsabilità dell’operatore sanitario solo nel caso di una “colpa grave” accertata in concreto (art. 2236 codice civile).
Per i sanitari si potrà aprire semmai, è l’auspicio, una fase di riflessione che tragga testimonianza dal loro ruolo di meccanismo primario e imprescindibile della funzione sociale clinica, in un’ottica di ritrovata alleanza terapeutica medico-paziente, e che li sottragga a una preconcetta ricerca della colpa, che troppo stesso prescinde dal contesto organizzativo nel quale si trovano a operare, anche al di fuori di questa realtà pandemica.
Oltre a “marginalizzare” sempre più la funzione organizzativa nel contesto emergenziale e di speciale difficoltà prevista dall’art. 2236 c.c., troppo spesso l’indagine clinica e causale rispetto alla condotta del sanitario si è astratta senza ragione dall’esame della realtà aziendale nella quale il singolo professionista opera.
Si auspica in questo senso, oltre alla ripresa di un meccanismo di indagine più equilibrato, la miglior valorizzazione giudiziale della realtà operativa nella quale collocare (anche con funzione concausale) l’operato del sanitario. 

Dalle indagini giudiziarie al costo dei danni
Al tempo stesso, proprio le aziende sanitarie saranno necessariamente esposte, a tempo debito, a uno screening sulle proprie capacità organizzative e di ricettività delle indicazioni emergenziali che, dalla dichiarazione dello “stato di emergenza” del gennaio scorso in poi, hanno rappresentato le linee guida per fronteggiare un’emergenza del tutto nuova. 
Ci saranno necessarie indagini giudiziarie, sull’impulso delle parti che si ritengano vittime della gestione organizzativa e assistenziale (le cronache riferiscono di procedimenti civili e penali già avviati), nelle quali i canoni probatori saranno particolarmente rilevanti per indagare su reali e mai presunte ipotesi di responsabilità organizzative e funzionali, tanto nelle strutture demandate alle cure, quanto, come detto, in quelle di lungodegenza (le Rsa), proiettate queste ultime verso funzioni mai governate in precedenza di contenimento epidemiologico. 
Anche i lavoratori, del comparto sanitario e non, sono diventati attori primari della realtà emergenziale da quando si è deciso (art. 42 della legge n. 27/2020) di ampliare la tutela infortunistica da contagio, in ottica previdenziale, allargando i margini di intervento dell’Inail ogni qual volta possa essere presunta la causa virulenta collegata alle funzioni del lavoratore contagiato, a prescindere dal rilievo di una reale responsabilità del datore di lavoro (circolare Inail n. 22 del 20 maggio 2020). 
Come detto in premessa, tutte le grandi crisi (anche sanitarie) proiettano nel futuro ingenti i riflessi economici e sociali che rappresentano il costo dell’attacco alla salute dei cittadini. 
All’enorme dispendio di risorse statali necessarie per il contenimento del contagio e la cura dei malati, si sommerà il costo dei danni che dovranno essere risarciti alla fine del percorso giudiziario e nelle ipotesi di comprovata responsabilità delle strutture coinvolte in prima linea. 

I riflessi assicurativi
Qui la riflessione deve essere allargata al mondo assicurativo, che da tempo (complice l’elevato costo del ramo in termini di rapporto premi/sinistri) appariva “freddo” nella scelta di offrire coperture alle aziende sanitarie e agli operatori del settore e che, inevitabilmente, sarà indotto a un’ancor maggiore diffidenza oggi, delimitando i rischi futuri e quindi l’ombrello di una garanzia patrimoniale in assenza della quale il costo dei risarcimenti si rifletterà necessariamente sui bilanci delle aziende sanitarie. 
Si è detto già che, in perdurante assenza dei decreti attuativi della legge Gelli-Bianco (art. 10 della legge n. 24/2017), il mondo della sanità non vive oggi una realtà, pur auspicata dalla norma, di pienezza dell’obbligo assicurativo e si dibatte tra forme di autoassicurazione, che per lo più si traducono in assenza di garanzie (le cosiddette Sir), ovvero in una forte delimitazione delle stesse (per lo più con franchigie contrattuali molto alte, o esclusioni da rischio Covid-19).
Inevitabile la riflessione sul costo sociale che il presumibile incremento delle cause e l’assenza di tutela patrimoniale avrà sul conto economico del comparto sanitario. 
Lo stesso mondo assicurativo, infine, appare oggi in allarme per i possibili riflessi che l’interpretazione traslatizia del concetto di “infortunio da Covid-19” potrà avere sulle polizze Rco a copertura della responsabilità dei datori di lavoro e anche sulle polizze private infortuni, ove la nuova definizione previdenziale d’infortunio da causa virulenta dovesse colpire il rischio normalmente inquadrato nel diverso regime della malattia, professionale o meno. 
Infine, l’organizzazione delle aziende sarà chiamata a rispondere, attraverso i suoi vertici operativi, delle decisioni e dei presidi di sicurezza adottati nella fase di emergenza, secondo lo schema di giudizio proprio del decreto legislativo n. 81/2008, con rifessi per le figure apicali e anche per la persone giuridiche, in vigenza del decreto legislativo n. 231/2001 (responsabilità “penale” dell’azienda). Tre macroaree, dunque, di impatto dell’esperienza nazionale da Covid-19 che oggi possono essere analizzate solo in una via prognostica e futuribile, avendo a mente i canoni della colpa sanitaria come a oggi tramandati dalla legge e dal diritto vivente, e come allineatisi, ove possibile, ai requisiti di una emergenza mondiale ancora oggi di difficile inquadramento anche dal punto di vista delle linee di contrasto.
Di queste tre aree di impatto (la responsabilità di operatori e aziende; la portata della colpa per il datore di lavoro; e l’impatto della realtà epidemiologica sul mondo delle coperture assicurative) si è pensato di offrire, con alla mente quanto qui argomentato in premessa, un’articolata analisi.

La responsabilità sanitaria da contagio
Un aspetto che non mancherà di emergere nelle cronache, anche giudiziarie, è legato all’efficacia della lotta alla diffusione virale in contesto sanitario. Alla mole di pazienti Covid-19 presenti o ricoverati nel corso dell’emergenza, si potrà ritenere associata l’aliquota di chi potrà provare di avere contratto il virus proprio durante la degenza nelle strutture per ragioni diverse da quelle epidemiologiche. Tanto la conoscenza del virus, quanto i protocolli di cura e contrasto, erano (e sono ancor oggi) sconosciuti al mondo scientifico, e certamente non si potrà imputare alle aziende sanitarie il mancato rispetto di protocolli e linee guida aventi valenza e finalità curative.
Diversa questione potrebbe nascere nell’analisi della realtà epidemiologica dal punto di vista dell’efficacia degli strumenti doverosamente posti in atto per contrastare la diffusione del virus. 
Ci si chiede se – sul piano giuridico – si possa associare la lotta al contagio da Covid-19 alla normale struttura giuridica delle così dette infezioni nosocomiali.
Sappiamo che la giurisprudenza, in tema di infezioni in azienda sanitaria, è sempre stata molto rigorosa nei confronti delle strutture ospedaliere.
È vero che il tema delle infezioni nosocomiali ha sempre presentato notevoli profili di complessità, tanto in ambito medico quanto in ambito giuridico.
Anzitutto, la pluralità dei fattori produttivi del fenomeno infettivo rende spesso arduo individuare la causa specifica e, conseguentemente, affermare quale sia il suo antecedente causale; per di più, in presenza di soggetti deboli (quali bambini, anziani, immunodepressi), i più colpiti dalle infezioni, è ancor più difficile distinguere gli effetti strettamente connessi al contagio rispetto alle preesistenti patologie.
Molte infezioni, inoltre, sono per loro natura “inevitabili” (circa il 70% del totale), nel senso che, pur adottando tutte le precauzioni previste dalla letteratura medica, esse rappresentano una complicanza non “prevenibile” di determinati interventi. 
Tutto ciò ha, inevitabilmente, effetti anche in ambito giuridico, soprattutto circa le problematiche relative alla ripartizione dell’onere probatorio tra paziente e struttura nonché del conseguente accertamento della responsabilità.
In assenza di norme ad hoc, la giurisprudenza si è orientata nello stabilire che nell’ambito delle infezioni nosocomiali trovano applicazione i criteri generali. Pertanto, in primo luogo va accertata la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l’infezione (che solo in caso positivo può dirsi “nosocomiale”)e, successivamente, va verificato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio, ovvero se quest’ultimo dipenda da una circostanza non imputabile.

Le infezioni nosocomiali nella giurisprudenza
Ciò posto, e sempre in applicazione dei principi generali, l’onere della prova in materia di infezioni nosocomiali risulta così ripartito:
  • il paziente deve provare che all’attività sanitaria è conseguito non già il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze del caso, bensì l’insorgenza di una lesione o patologia in precedenza insussistenti, tra le quali è da annoverarsi anche un processo infettivo contratto nel corso delle prestazioni ospedaliere; 
  • sulla struttura grava l’onere di provare che la prestazione è stata correttamente adempiuta (avendo in particolare posto in essere tutte le precauzioni idonee a evitare l’insorgenza di infezioni) e che la patologia infettiva rappresenta una conseguenza inevitabile (nel senso che quand’anche prevedibile non era in alcun modo prevenibile) e, dunque, alla stessa non imputabile.
Non esiste dunque una responsabilità oggettiva della struttura per le ipotesi d’infezioni nosocomiali, seppure non deve essere nascosta la difficoltà di fornire in concreto tale prova liberatoria.
A mero titolo di esempio, riportiamo una recente decisione del Tribunale di Milano in relazione a un’infezione occorsa all’esito di un intervento chirurgico agli arti inferiori per un problema settico che ha comportato la necessità di ulteriori interventi (Tribunale di Milano, sez. I, ord. 9 aprile 2019, n. 2728).
Il Tribunale, a fronte di una Ctu che ha affermato la sicura natura nosocomiale dell’infezione, pur nell’incertezza in ordine alla sua specifica causa, ha ritenuto che le prove fornite dalla struttura sanitaria non fossero idonee a escludere la colpa della stessa nella determinazione dei danni. Invero, nonostante la convenuta abbia genericamente dimostrato di aver adottato linee guida e protocolli diretti a evitare le infezioni nosocomiali, è mancata la prova che, nel caso specifico, tali protocolli siano stati scrupolosamente osservati, in quanto dalla cartella clinica e dalla check list preoperatoria non è emerso il rispetto di tutte le attività di prevenzione.
Interessante è anche la sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 257/2011, che si è pronunciata sull’inadeguatezza della prova liberatoria in riferimento al trattamento post-operatorio. 
Il caso riguardava un’infezione conseguente a episiotomia non adeguatamente trattata, in quanto alla paziente erano stati somministrati antibiotici generici dopo tre giorni dall’intervento in luogo dei necessari antibiotici specifici e del preventivo esame di emocultura. La Suprema Corte affermò nel caso che, sebbene il trattamento antibatterico possa non avere successo, non si giustificava l’omissione delle indagini dirette ad accertare quali fossero i medicinali più efficaci (nella specie, l’emocultura).
Si pone quindi un tema in generale di provare (per la struttura) che sia stato fatto tutto il possibile in fase post-operatoria per debellare il batterio, dovendosi ritenere altrimenti inefficace la prestazione sanitaria e, quindi, sussistente la responsabilità della struttura per i danni conseguenti all’infezione. 
La prova del corretto adempimento da parte della struttura ospedaliera deve dunque riguardare due aspetti: 
  • il primo consiste nell’adozione di tutte le cautele previste dalle leges artis (sia in relazione ai locali che alla strumentazione) per prevenire l’insorgenza di patologie infettive; 
  • il secondo consiste nella prescrizione di un trattamento terapeutico adeguato in seguito al contagio.
Tale prova liberatoria, tra l’altro, deve considerare attentamente tutte le circostanze del caso concreto, fornendo esempi specifici delle cautele in concreto adottate (esempi che devono emergere anche dalla cartella clinica) e non bastando una prova generica e decontestualizzata rispetto alla fattispecie in questione (quale, appunto, l’adozione di protocolli in materia di sterilizzazione e lo svolgimento di verifiche a campione della disinfestazione). 
L’azienda onerata della prova, inoltre, deve dimostrare, sempre con stretto riguardo al caso concreto, l’efficacia delle procedure a evitare l’evento e, dunque, che l’infezione sia anteriore all’intervento o legata a un fattore imprevedibile. 
Infine, deve essere prodotta una cartella clinica dettagliata, che contenga l’indicazione di tutte misure applicate nella fase pre e post operatoria.
In sintesi, la prova per essere liberatoria deve essere specifica, efficace, dettagliata nonché comprovata dalla analitica compilazione della cartella clinica.

L’onere della prova della sussistenza del nesso eziologico
Tuttavia, anche la posizione processuale del paziente che assuma un contagio o un’infezione per la condotta colpevole della struttura sanitaria, è gravata d’incombenti probatori di non poco conto.
Secondo la giurisprudenza più recente in tema di nesso causale, del resto, è sempre il paziente che ha l’onere di fornire la prova della sussistenza del nesso eziologico: “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato (paziente) provare il nesso di causalità tra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile e inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione; l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari” (si veda ad esempio Cass. 26.02.2019 n. 5487 e, da ultimo Cass. 11.11.2019 n. 28991 e 28992, nonché Cass. 26.02.2020 n. 5128).
Seguendo tali principi, ne consegue che: “Se, al termine dell’istruttoria resta incerta la reale causa del danno, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano quindi sull’attore”, e ancor più precisamente “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerta la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto” (da ultimo Cass. 11.11.2019 n. 28991 e 28992, nonché Cass. 26.02.2020 n. 5128).

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