Anra, ecco come il risk manager può governare le policrisi
Anra ha dedicato il suo ventiquattresimo convegno alla moltiplicazione e interconnessione di molteplici crisi su scala globale. In questo contesto il gestore dei rischi è chiamato a svolgere un ruolo chiave: non più solo come tecnico, ma come vero e proprio consulente strategico
La moltiplicazione e l’interconnessione delle crisi geopolitiche, economiche, ambientali e tecnologiche. È questa, per sommi capi, la definizione che viene data al concetto di policrisi, l’argomento principe attorno a cui Anra, l’associazione nazionale dei risk manager, ha voluto sviluppare il suo ventiquattresimo convegno, iniziato ieri a Milano e ancora in corso di svolgimento.
“L’incertezza – ha detto nel suo intervento di apertura la presidente di Anra, Gabriella Fraire – oggi si manifesta con una velocità senza precedenti. Le crisi si moltiplicano e non si possono più affrontare con gli strumenti del passato”. Fraire ha sottolineato “Il valore dell’esperienza condivisa”, per cui “ogni occasione di dialogo tra gli associati è un momento per apprendere”.
L’incertezza è oramai diventata una condizione permanente, ha ricordato Maurizio Castelli, presidente del comitato tecnico scientifico di Anra: “viviamo un paradosso: abbiamo dati, metodi e tecnologie, eppure mai come oggi il mondo sfugge alle categorie classiche e alla capacità che abbiamo di stargli dietro”. Il risk management è chiamato prepotentemente a trasformarsi in “un abilitatore di resilienza e cambiamento”. Le organizzazioni hanno bisogno di un monitoraggio continuo del rischio, pertanto, ha osservato Castelli “il risk manager non è più solo un tecnico ma un consulente strategico”.
IL NUOVO PAESAGGIO DEL RISCHIO
A offrire un’affascinante panoramica sulle origini dell’odierno panorama del rischio è stato Christian Kanu, ceo di Generali Global Corporate & Commercial in un keynote speech che a tratti è parso più una lectio magistralis.
Kanu ha in primis inquadrato lo scenario attuale in una dimensione storica. “Non è la prima volta che un cambiamento di contesto ridefinisce i paradigmi”, ha detto. Un periodo in cui sono avvenuti cambiamenti di portata analoga a quelli che viviamo oggi è stato il passaggio tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Tra la caduta di Costantinopoli (1453) e la Battaglia di Lepanto (1571), secondo Kanu, “ci furono cambiamenti epocali interconnessi, una combinazione di più fattori economici, religiosi, tecnologici e geopolitici”. Si passò da un mondo incentrato sull’Italia e il Mediterraneo a uno incentrato sugli oceani. Uno scenario che determinò vincitori e vinti: tra i primi ci furono due soggetti che a partire da quel momento ebbero una eccezionale ascesa, il Portogallo e la Spagna, mentre tra i vinti ci fu l’Italia, che perse la sua centralità. Secondo Kanu, l’Europa attuale assomiglia all’Italia del 1500, “la civiltà più avanzata, con la migliore qualità di vita, ma molto frammentata”. Oggi dalla nostra abbiamo però diversi fattori che non rendono ineluttabile il declino: da un lato l’esistenza stessa dell’Unione Europea, soggetto in grado di dare maggiore forza ai singoli Stati, dall’altro un grande know-how tecnico e di innovazione. Quello che manca, ha osservato Kanu, “è la capacità politica e di governance. Una visione chiara e condivisa, un piano strategico collegato, e un’esecuzione efficace. In realtà in Europa il piano lo avremmo anche, il Rapporto Draghi, ma manca la capacità di applicarlo”. Quanto all’Italia, nello specifico, “il nostro è un paese forte frenato dagli interessi di categoria, che dà il meglio di sé quando è con le spalle al muro”. Secondo Kanu la sfida epocale per l’Italia è quella demografica, su cui occorre trovare una soluzione anche identificando una visione di lungo respiro sull’immigrazione.
In questi anni di trasformazione epocale, la capacità di non farsi sopraffare dal cambiamento “dipenderà dalla nostra attitudine. La responsabilità individuale – ha concluso Kanu – è il fondamento della coesione collettiva. La policrisi è una sfida epocale, ma ciascuno di noi può contribuire al risultato finale: possiamo essere le sentinelle che costruiscono un futuro più resiliente, più equo e più sostenibile”.
UN NUOVO RUOLO PER IL RISK MANAGER
Le riflessioni della giornata si sono poi spostate più dettagliatamente sui cambiamenti che toccano la figura del risk manager, che oggi è sempre più chiamato a essere un orchestratore del rischio, capace di influenzare ecosistemi complessi. Da questa considerazione ha preso il via la prima tavola rotonda della mattinata, che ha messo a confronto Charlotte Hedemark presidente (in scadenza di mandato) di Ferma, Annamaria Oliva (Leonardo), Paolo Trucco (Politecnico di Milano), Paolo Gerardini (Assolombarda).
La discussione è partita con Hedemark, la quale ha ricordato le iniziative di Ferma nella sua attività volta a ribadire la centralità del risk manager presso i principali tavoli di confronto istituzionale europeo. Una figura professionale, quella del gestore dei rischi, attorno a cui va ridefinito il ruolo della formazione in un’epoca attraversata non solo dalla velocità di cambiamento degli scenari di rischio, ma anche da una maggiore velocità di innovazione. Per formare le nuove generazioni, ha sostenuto Paolo Trucco, “bisognerà uscire dai framework tradizionali per creare opportunità di apprendimento più pratico, di natura induttiva”. La discussione è poi virata sulla necessità di integrare i rischi fisiologici in un risk management embedded, il cui presupposto è che “la capacità di crescita di un’azienda non arriva solo dalla somma delle capacità delle sue aree operative, ma da una visione olistica e sistemica della propria organizzazione e del contesto esterno”, ha osservato Annamaria Oliva. Se da un lato il risk manager è chiamato a essere una figura chiave nel funzionamento dell’azienda, dall’altro va ancora fatta una battaglia culturale relativamente alle Pmi perché, ha ammesso Paolo Gerardini, “spesso si guarda al rischio solo quando qualcosa di spiacevole succede”.
SAPER COMUNICARE LA CULTURA DEL RISCHIO
La successiva tavola rotonda è stata dedicata al tema cruciale della comunicazione. Riuscire a far percepire efficacemente i rischi all’interno di un’organizzazione è “l’arte di tradurre la complessità in comprensibilità per costruire una cultura del rischio condivisa”, ha osservato Philippe Cotelle, presidente in pectore di Ferma, che ha partecipato alla discussione assieme a Giovanni Battista Rossi (Snam), Pasquale Vico (Autostrade per l’Italia) e Tiziano Toffolo (Hdi Global). Dal confronto è emerso come oggi il risk manager sia chiamato a parlare linguaggi diversi, a costruire ponti. La cultura del rischio non si impone ma si coltiva, si media, si compone: il risk manager è sempre più un narratore del rischio e il modo in cui lo racconta può cambiare sempre di più il risultato. Per lavorare verso questo obiettivo “il linguaggio deve essere quanto più depurato da tecnicismi, e avere un taglio concreto”, ha osservato Rossi, mentre Vico ha sottolineato come il risk manager sia “un abilitatore di sinergie in quanto è una delle poche figure che ha una conoscenza trasversale del funzionamento dell’azienda”. Toffolo, infine, ha portato un doppio punto di vista, avendo lavorato come risk manager prima di passare a operare per una compagnia: “l’assicurazione – ha detto – è un alleato chiave nella comunicazione del risk manager perché può trasmettere gli impatti dei rischi attraverso le esperienze concrete dei sinistri, che riescono ad andare ben oltre ciò che possono rappresentare i modelli di rischio”.
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