Un esodo storico verso la pensione: con quali conseguenze?
L'editoriale di Maria Rosa Alaggio, dal numero di settembre 2025 di Insurance Review
11/09/2025
In pochi anni, dal 2025 al 2029, si stima che più di tre milioni di lavoratori italiani lasceranno il lavoro per andare in pensione. Ad affermarlo è l’ufficio studi della Cgia di Mestre sulla base dei dati emersi dalle elaborazioni del sistema informatico Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con il ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
Secondo questa analisi, nei prossimi anni solo una piccola minoranza cambierà vita per un ritiro volontario, per la perdita di impiego, perché sceglierà di emigrare all’estero o di diventare lavoratore autonomo piuttosto che dipendente.
Il passaggio alla pensione riguarderà invece milioni di lavoratori, circa il 12,5% del totale nazionale: un numero che rischia di tradursi in una voragine in termini di esigenze occupazionali, conseguenze economiche per il sistema pensionistico e per le aziende, impatti sulla fisionomia della nostra società.
Il report tiene conto in particolare degli effetti che questo fenomeno potrà causare al mondo del lavoro, per il settore privato, per la pubblica amministrazione e per i lavoratori autonomi. Il settore privato sarà quello più colpito, con 1.608.300 dipendenti da sostituire (pari al 52,8% del totale), con un maggiore impatto per il settore dei servizi (72,5% del personale da sostituire), per l’industria (23,8%) e l’agricoltura (3,6%).
In pochissimo tempo assisteremo dunque a una fase in cui milioni di persone passeranno all’inattività, sebbene con una diversificazione territoriale a livello nazionale: le Regioni più colpite saranno Lombardia, Lazio e Veneto.
Questo esodo dalla portata storica, si potrebbe pensare, sarebbe l’occasione per riuscire a generare quel ricambio generazionale nelle aziende da tempo auspicato, dando spazio ai giovani.
Tra le preoccupazioni più diffuse per l’occupazione del nostro paese spicca infatti la penuria di nuovi ingressi nel mondo del lavoro da parte delle nuove generazioni rispetto a chi ha più di 55 anni, confermando in generale il trend di prolungamento della permanenza al lavoro in età più avanzata.
L’invecchiamento progressivo dei dipendenti attivi in Italia è descritto da un tasso di anzianità che nel 2021 era a 61,2%, nel 2022 si attestava al 62,7% e nel 2023 arrivava al 65,2%.
L’analisi della Cgia di Mestre non presenta però un’interpretazione positiva di questa fuga dal lavoro e non contempla nessuna ipotesi che in futuro sarà possibile disporre di nuove risorse per l’occupazione e per la qualità professionale su cui le aziende potranno contare.
Questo scenario, secondo lo studio, avrà invece un forte impatto per le tutte le aziende, che già faticano a far combaciare richiesta di personale e reale disponibilità di soggetti adeguati, troppo spesso inadatti sul piano della preparazione professionale e dei necessari requisiti per ricoprire le funzioni richieste.
Nessuna buona nuova, dunque, sull’opportunità di aprire nuovi orizzonti per i giovani. Solo sfide importanti per le aziende e incognite per il futuro del Paese.
La risposta a queste incertezze dovrà allora concentrarsi su programmi di sostegno alle imprese, formazione per i più giovani, qualità del lavoro e retribuzioni adeguate: necessità di investimenti di cui la politica dovrebbe tenere conto quando si discute, solo per fare un esempio più recente, circa la proposta del sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, di andare in pensione a 64 anni, su base volontaria, utilizzando il Tfr per avere un assegno più alto.
Come sempre, il grande quesito resta quello di individuare le coperture necessarie a finanziare la flessibilità di uscita anticipata dal lavoro, i relativi costi e l’impegno richiesto alle aziende e ai lavoratori. Domande a cui serve dare una risposta esaustiva e sostenibile anche in previsione del trend descritto dalla Cgia e degli impatti che dovranno essere gestiti nei prossimi anni per la tenuta, economica e sociale, del nostro paese.
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