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Un nuovo patto per il welfare

Tornando sugli "instabili" rapporti tra Consulta, Governo e Parlamento e, in particolare, sull’accusa non troppo velata al Giudice delle Leggi di aver piegato l'attuale Esecutivo – costringendolo a restituire al cittadino il maltolto, ovvero la somme dovute a titolo di perequazione dei trattamenti pensionistici per il biennio 2012 e 2013 – bisognerebbe approfondire un aspetto neppure sfiorato dalla querelle istituzionale indotta dalla sentenza n. 70/2015.

In quella pronuncia, è bene ribadirlo, la Corte si è limitata a sanzionare, nel pieno esercizio delle proprie prerogative, una legge illegittima che, per mere ragioni di cassa, ha inciso sul diritto di un’ampia fascia di pensionati a ricevere un trattamento economico adeguato al costo della vita. Nel far ciò, dunque, non è stata certo preclusa all’Esecutivo ed al Parlamento la possibilità di metter mano alla legislazione vigente e, dunque, di reperire da altre fonti le risorse economiche necessarie per il sostentamento dell’infernale macchina burocratica. Macchina assai articolata che, a questo punto, dovrebbe forse essere sottoposta a revisione nel suo complesso.

È noto, infatti, che la spesa pensionistica/assistenziale e quella sanitaria costituiscono le voci più rilevanti del bilancio pubblico. Ma non solo: costituiscono anche le voci politicamente più sensibili, se non addirittura intoccabili, in quanto riferite alle grandi conquiste storiche del dopo-guerra in cui possiamo certamente indentificare il contenuto essenziale del concetto stesso di welfare.
Eppure, dalla mera lettura delle norme costituzionali che disciplinano la materia assistenziale e sanitaria ben si può comprendere come la Carta Fondamentale non imponesse di certo la prodiga scelta praticata nella prima Repubblica (e cioè quella di garantire “tutto a tutti”) ma, molto più ragionevolmente, di garantire mezzi di sostentamento e di supporto solamente a chi versi in uno stato di bisogno.

Cristallina, in tal senso, è la formulazione dell’art. 32 Cost. nella parte in cui impegna la Repubblica, in termini programmatici, a garantire “cure gratuite agli indigenti”. E ancora si legga l’art. 38 comma 2 nella parte in cui, con termini non dissimili, è prescritto che “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale”.
Nessun legaccio costituzionale, dunque, impedirebbe a Governo e Parlamento di disegnare pro futuro, nell’esercizio della propria discrezionalità politica (e dunque anche tenendo conto delle disponibilità finanziarie dell’erario), una nuova geografia del pilastro statale che, ossequiando da un lato le istanze solidaristiche così superbamente declinate dai padri costituenti, dall’altro agevoli – ed anzi renda necessaria – l’entrata in scena del welfare privato come attore protagonista (e non come mero gregario) di quello pubblico.

Vien da chiedersi, infatti, perché mai un cittadino dovrebbe oggi (se non per garantirsi una prestazione migliore … ) acquistare una polizza infortuni o di rimborso delle spese sanitarie quando vi è già uno Stato deliberatamene ed indiscriminatamente generoso con tutti i propri associati, anche al di fuori dell’effettivo stato di bisogno costituzionalmente tutelato…

Ora, la questione andrebbe certamente approfondita, ma non vi è dubbio che l’autorevolezza di uno Stato si misura anche nella capacità di quest’ultimo di rinnovarsi nel pieno rispetto del dettato Costituzionale. Per uscire dalla crisi, dunque, servirebbe forse un nuovo patto sociale: ma chi avrebbe il coraggio “politico” di proporre questo nuovo patto, correndo il rischio di perdere il consenso di un popolo eccessivamente viziato?   


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