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Che fine ha fatto la nomofilachia?

Nel rapporto tra l’istituto previsto dal diritto e alcuni comportamenti della Corte di Cassazione si evince come la realtà giuridica possa essere un’utopia nella pratica

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Com’è noto, il legislatore, a partire dal 2006, con alcune importanti norme, ha rafforzato la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione. La disposizione più importante al riguardo è senz’altro quella prevista dall’art. 374, comma 3 del codice di procedura civile, il quale stabilisce che “se la Sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.
Ma ci sono molte altre leggi che hanno rafforzato l’istituto della nomofilachia e del precedente. Ne ricordo solo alcune.
L’art. 42, comma 2 della legge n. 69/2009 stabilisce che la Sezione Semplice della Corte dei Conti, se non condivide il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Riunite, deve formalizzare il suo dissenso e chiedere che le Sezioni Riunite si pronuncino ancora.
La stessa regola vale anche nei rapporti tra Sezione Semplice della Corte di Cassazione penale e le Sezioni Unite. L’articolo 618 del codice di procedura penale stabilisce, infatti, che se una Sezione Semplice della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso.
E ancora, l’art. 360 bis del codice di procedura civile stabilisce l’inammissibilità del ricorso per Cassazione quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa.

Il caso concreto del danno non patrimoniale
C’è, insomma, un apparato normativo articolato che ha lo scopo di valorizzare i precedenti e l’istituto della nomofilachia per cercare di assicurare una tendenziale certezza del diritto ed evitare una sua deriva verso l’instabilità, la liquidità e la babele interpretativa o, ancor peggio, l’arbitrio del giudice.
Orbene, se si esaminano alcune pronunce della Corte di Cassazione sul risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, la sentenza n. 901/2018 e la famosa ordinanza n. 7513/2018 (nota come il decalogo della Cassazione), nella quale si afferma che non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e di un’ulteriore somma per i pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale rappresentati dalla sofferenza, dal dolore dell’anima, dalla vergogna e dalla disistima di sé, la paura, la disperazione, non si può che concludere che tali pronunce sono in palese contrasto con il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di San Martino (sentenze n. 26972 – 26973-26974/2008) secondo il quale costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale.
Mi pongo allora questo interrogativo: che fine ha fatto l’istituto della nomofilachia e del precedente?
Perché la Sezione Semplice della Cassazione non ha formalizzato il suo dissenso chiedendo una nuova pronuncia delle Sezioni Unite come ha stabilito il legislatore?
Anche se si esamina una recente sentenza della Corte di Cassazione sul danno tanatologico (n. 26727/2018), che ha riconosciuto il risarcimento di tale danno agli eredi della vittima in contrasto con i principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 15350/2015, che aveva espunto dal nostro ordinamento questo danno, mi pongo lo stesso interrogativo sopra richiamato. Che fine ha fatto la funzione nomofilattica della Cassazione?  Anche tra i giudici di merito c’è chi si discosta dai principi enunciati dalle Sezioni Unite di San Martino per affermare, ad esempio, che il danno da lesione al diritto dell’autodeterminazione è in re ipsa e non un danno conseguenza (Trib. Lecco, sent. n. 108/2019), e l’interrogativo che mi pongo è simile. Perché alcuni giudici di merito si discostano dai principi enunciati dalle Sezioni Unite? Dare una risposta a questi interrogativi, è difficile.

Tra evoluzione e instabilità
Le sentenze sopra richiamate delle Sezioni semplici della Cassazione e anche quella del Tribunale di Lecco che hanno affermato principi che contrastano con quelli delle Sezioni Unite sono molto ben argomentate e scritte da autorevoli giudici come il dott. Rossetti e il dott. Travaglino.
Certamente nessuno mette in dubbio che l’ordinamento debba evolversi e non rimanere statico quando vi sono ragioni migliori rispetto a quelle affermate precedentemente dalle Sezione Unite. Ma un nuovo assetto del danno non patrimoniale, nel rispetto delle regole vigenti, dovrebbe avvenire con una nuova pronuncia delle Sezione Unite della Cassazione.
Altrimenti rischiamo una deriva verso l’instabilità e l’incalcolabilità del diritto per dirla alla Natalino Irti.
Altrimenti rischiamo una babele risarcitoria perché alcuni giudici liquideranno il danno non patrimoniale in modo unitario e altri liquideranno, invece, il danno biologico e separatamente il danno morale.
Alcuni giudici liquideranno il danno tanatologico e altri ancora continueranno a non risarcirlo nel rispetto del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite del 2015.
Alcuni giudici liquideranno il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione considerandolo in re ipsa e altri solo se il danneggiato ha provato un pregiudizio, come affermato dalle Sezioni Unite.
L’istituto della nomofilachia è il cuore dell’attività della Corte di Cassazione e i giudici, come ci ricorda sempre nei suoi scritti un grande magistrato della Cassazione, Renato Rordorf, devono bilanciare l’etica delle proprie convinzioni con l’etica della responsabilità.
Le parti in causa non devono essere mai utilizzate come ballon d’essai per sperimentare opinioni personali del giudice, ma quest’ultimo deve ricordare che ogni decisione è il tassello di un più ampio tessuto giurisprudenziale in cui essa deve potersi armonizzare.
Le sentenze, e qui cito, invece, un grande filosofo tedesco, Jurgen Habermas, non parlano solo alle parti ma anche agli altri giudici, alla dottrina e alla pubblica opinione. Il giudice esercita un agire comunicativo orientato all’intesa, afferma Habermas. E l’istituto della nomofilachia, che è l’antidoto più forte alla fluidità della nostra società, è proprio un agire comunicativo orientato all’intesa affinché l’ordinamento abbia, se pur parzialmente, delle isole di stabilità e di certezza nel rispetto del principio di uguaglianza sancito dalla nostra tavola costituzionale.

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