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Si riaprono i giochi sulla claims made?

Una recente ordinanza di censura propone un nuovo esame da parte delle Sezioni Unite sulla clausola “a prima richiesta fatta”, rimettendo in partita un’ammissione già assodata anche dalla previsione nelle leggi Gelli e Concorrenza approvate nel 2017

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Non c’è pace per la clausola claims made nel nostro ordinamento. 
Non sono bastati il pronunciamento (che potremmo definire ammissivo con riserva) delle sezioni unite della suprema Corte di Cassazione (la nota decisione n. 9.140 del 6 maggio 2016), né le successive sentenze di molti tribunali dello Stato, ad essa allineatisi, e neppure, soprattutto, le indicazioni che il nostro legislatore ha voluto di recente formare circa la normazione tipizzante della clausola contrattuale in parola. 
Tutto inutile. La clausola claims made o a prima richiesta fatta annovera ancora, specie per certa parte della magistratura, una nutrita schiera di oppositori e critici che, a discapito del principio nomofilattico come pure della cogenza normativa, non esistano ad avanzare ancora oggi spunti di censura circa la valenza strutturale, dogmatica e giuridica del patto in parola. 
Con ordinanza depositata lo scorso 19 gennaio (n. 1.465, pres. Vivaldi, est. Rossetti) la questione della sostenibilità e ammissibilità giuridica nel nostro ordinamento della clausola claims made è stata nuovamente posta all’attenzione del primo presidente della Corte al fine di valutare “l’opportunità di assegnare alle Sezioni Unite” un nuovo esame sui temi ancora una volta evidenziati come conflittuali all’interno degli orientamenti dei giudici del supremo collegio. 

Su cosa punta il rinvio alle Sezioni Unite
Si legge nell’ordinanza di rinvio che le Sezioni Unite si auspica siano (nuovamente) chiamate a decidere se siano o meno corretti i seguenti principi:
  1. che nell’assicurazione contro i danni non è consentito alle parti elevare al rango di “sinistri” fatti diversi da quelli previsti dall’articolo 1.882 C.C. ovvero, nell’assicurazione della responsabilità civile, dall’articolo 1.917 C.C., comma 1;
  2. che nell’assicurazione della responsabilità civile deve ritenersi sempre e comunque immeritevole di tutela, ai sensi dell’articolo 1.322, la clausola la quale stabilisca la spettanza, la misura e i limiti dell’indennizzo non già in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui l’assicurato ha causato il danno, ma in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto all’assicurato di essere risarcito.
Si legge nell’ordinanza che il collegio rimettente non si nasconde l’esistenza dell’autorevole pronunciamento del 2016 reso proprio dalle Sezioni Unite. E, pur tuttavia, lo stesso ritiene ugualmente che i temi affrontati in quella decisione non siano stati esaurientemente indagati sotto i due profili appena sopra indicati. 

È ammissibile una diversa origine del sinistro
In verità, quanto al primo profilo, il fatto che nella tecnica assicurativa sia ammissibile l’inquadramento funzionale di un diverso elemento ai fini della generazione del sinistro è già stato affermato proprio dalle Sezioni Unite nella decisione n. 9140 del 2016. In tutto l’impianto motivo della decisione si legge a chiare lettere che i giudici del collegio ritennero perfettamente ammissibile nel nostro sistema la figura del sinistro generato nel sistema claims made.
Non altrimenti sarebbe stato possibile ritenere la clausola in parola ammissibile (ove meritevole) di derogare all’impianto dell’art. 1917 C.C.. 
Osserva la Corte, infatti, nella decisione n. 9.141 che “mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perché provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere”.
La distonia dunque tra il concetto di sinistro in senso tecnico assicurativo e quello proprio discendente dall’art. 1.917 C.C. è tutt’altro che fonte di esclusione dal nostro sistema e l’ordinanza odierna chiede di fatto che le Sezioni Unite tornino a valutare un aspetto già ritenuto ammissibile e delineabile giuridicamente nel nostro ordinamento (la relativa censura venne infatti ritenuta non fondata nella decisione n. 9.140).   

Per il sinistro serve tempo
Parimenti, il secondo punto posto a oggetto dell’ordinanza di rimessione appare superato proprio dalla medesima decisione nomofilattica resa dalle Sezioni Unite nel 2016, in quanto la stessa Corte ha ritenuto ammissibile lo “iato temporale” che si viene a creare proprio per effetto della diversa generazione del sinistro rispetto al momento dell’accadimento storico legato alla commissione dell’illecito.

Il fatto che l’errore sia stato commesso in epoca diversa da quella in cui il danneggiato chieda per la prima volta il risarcimento conseguente e quindi la diversità cronologica tra fatto illecito e richiesta risarcitoria, possono comunque rispondere ai canoni del contratto assicurativo.
E ciò perché anche il rischio di aggressione del patrimonio del professionista (alla cui tutela è preposta la polizza Rc professionale) costituisce alea assicurabile e quindi causa del contratto assicurativo: “il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato” (Cass. SS. UU. n. 9140 del 2016, cpv IX).

La clausola è già accettata dal legislatore
Ma quello che, definitivamente, manca nell’elaborazione dottrinale che regge l’ordinanza in commento, è una seppur accennata considerazione all’efficacia cogente e tipizzante dei recenti interventi legislativi che, a più riprese oramai, hanno portato nuova disciplina cogente alla struttura del contratto assicurativo retto dalla clausola a prima richiesta fatta. 
Alludiamo, innanzitutto, alla legge numero 24 dell’8 marzo 2017 che all’articolo 11 (legge Gelli-Bianco) ha introdotto, proprio nel contesto di una clausola claims made, un obbligo di retroattività della copertura almeno decennale; ovvero ancora alla disciplina temporale dell’assicurazione obbligatoria professionale, introdotta ancor più di recente dalla legge Concorrenza (comma XXVI dell’art. 1 della legge n. 124 del 4 agosto 2017) che prevede un obbligo per le imprese di assicurazione di prevedere “l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura”.
È evidente che, a dispetto dunque del rigore nomofilattico che dovrebbe reggere la portata vincolante della decisione resa soltanto meno di un anno fa, persistano numerose sacche di resistenza ideologiche e giuridiche a sbarrare la strada al pieno riconoscimento di un criterio di delimitazione del rischio assicurativo riconosciuto valido a livello internazionale, ma che, benché appunto ammesso di recente nel nostro ordinamento, vede ancora posti in dubbio i suoi canoni definitori, sul falso presupposto che gli stessi non siano conformi ai principi cardine del codice civile.

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