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L’occasione per ripensare le polizze indennitarie

Polizze infortuni, principio indennitario e divieto di cumulo tra indennizzi e risarcimenti. Cosa cambierà per il settore assicurativo dopo la sentenza 13233 della Corte di Cassazione, dell’11 giugno 2014. Il commento dell’avvocato Maurizio Hazan

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Ci troviamo di fronte a una sentenza dagli impatti potenzialmente straordinari. Nell'esprimere, senza alcuna titubanza, il principio del divieto di cumulo tra indennizzi assicurativi e risarcimenti civilistici, a fronte di un medesimo evento di danno, la recente pronuncia della terza sezione della Corte di Cassazione impone alle imprese assicurative profonde riflessioni sul modo di gestire i loro processi liquidativi. Ciò con particolare riferimento al settore del danno alla persona, nell'ambito del quale la prassi sin qui registrata è nel senso di non considerare affatto il tema del potenziale indebito arricchimento del danneggiato a fronte della duplicazione delle poste risarcitorie/indennitarie riconosciutegli, a diverso titolo, dall'assicuratore privato e dal responsabile civile (o dall'impresa assicuratrice di quest'ultimo).

IL CASO DELL'RC AUTO
Si pensi, in particolare, al campo della Rc auto, dove ben potrebbe accadere che una medesima compagnia si trovi a subire, dal medesimo soggetto, due diverse richieste di indennizzo/risarcimento in relazione a lesioni di lieve entità (inferiori al 9%): una in veste di impresa gestionaria e in forza della procedura di indennizzo diretto e l'altra in qualità di assicuratore privato per la garanzia Infortuni del conducente. Ebbene, in tali ipotesi, costituisce prassi diffusa la liquidazione congiunta delle due poste di credito (contrattuale e aquiliana), senza alcuna operazione di scorporo (che pur sarebbe agevole, dal momento che in questo caso, a differenza delle altre ipotesi di assicurazione di responsabilità civile, l'assicuratore è perfettamente in grado di conoscere la coesistenza, diremmo meglio, la concorrenza, dei due titoli indennitari/risarcitori).
Sino ad oggi, dunque, il modus operandi delle imprese assicurative era nel senso di non portare a deconto le somme eventualmente percepite dall'infortunato in forza di proprie coperture assicurative. E ciò non tanto per la difficoltà di verificare se il danneggiato sia stato (parzialmente o integralmente) ristorato da altro assicuratore in forza di una copertura privata contro gli infortuni, quanto per la latente convinzione che la differenza di titolo (risarcitorio e indennitario) non giustificasse alcuno scorporo tra le due posizioni di credito.

IL PRECEDENTE DEL PRINCIPIO INDENNITARIO
Chi scrive aveva evidenziato, in precedenza e a più riprese, come già prima di questa sentenza, il mercato assicurativo avrebbe potuto, e forse dovuto, considerare l'orientamento seguito dalla Cassazione proprio in relazione all'applicazione del principio indennitario alle garanzie contro gli infortuni.
Ci riferiamo alla nota pronunzia con cui le Sezioni Unite (SU 5119/2002) avevano affermato il (discutibile) principio secondo il quale l'assicurazione contro gli infortuni non mortali dovesse essere ricompresa tra le assicurazioni del ramo danni, rimanendo perciò assoggettata al principio indennitario (in forza del quale l'indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito"). Quel precedente, il cui impianto motivazionale, peraltro, non risultava scevro da contraddizioni e antinomie logiche, poteva dunque, già più di dieci anni orsono, indurre le compagnie assicurative a porsi il problema afferente al limite esterno imposto dal principio indennitario e, con esso, il fondato dubbio circa la possibilità di portare a deconto dell'ammontare del risarcimento teoricamente dovuto al danneggiato la somma dallo stesso incamerata a titolo di indennizzo assicurativo da infortunio. Ciò a maggior ragione, in un comparto (proprio quello della Rc auto) in cui da anni s'insegue, a livello programmatico, l'obiettivo di diminuire i costi relativi alle liquidazioni dei danni da lesioni personali, con conseguente abbattimento dei premi della copertura obbligatoria.

IL CONFRONTO CON LA REALTÀ
Ma anche gli assicuratori del ramo infortuni avrebbero potuto considerare la possibilità di diminuire, o talvolta azzerare, l'indennizzo, ogni qualvolta l'assicurato avesse già autonomamente ottenuto il risarcimento del danno da parte del responsabile civile (pregiudicando il diritto di surrogazione dell'impresa assicuratrice, ove non convenzionalmente rinunciato, e comunque conseguendo un'indebita locupletazione a fronte del medesimo evento di danno).
Sennonché, in passato, si registrava una certa ritrosia a trasporre in pratica i principi sottesi all'impostazione indennitaria seguita dalle Sezioni Unite.
Ciò, da un lato, perché la sentenza n. 5119/2002 occupandosi di un tema specifico (quello dell'applicabilità dell'art. 1910 del Codice Civile alle polizze infortuni) non trattava espressamente della portata esterna del principio indennitario e, anzi, poneva qualche dubbio in ordine all'effettiva possibilità di operare in concreto, anche nelle ipotesi di assicurazione plurima del medesimo rischio, operazioni di scomputo o riparto all'interno di un medesimo danno; specie con riferimento al danno alla persona, la cui valutazione risultava di per sé difficilmente ancorabile a un concetto fisso e invariabile di riparazione integrale.
D'altra parte perché, forse a ragione, si riteneva che un tal modo di concepire il rapporto tra indennizzo e risarcimento avrebbe probabilmente vulnerato la (già debole) penetrazione sul mercato delle polizze infortuni, percepite, invece, dall'utenza come garanzie totalmente scollegate dall'eventuale coesistenza di diritti risarcitori (e come tali impostate nella prassi attraverso una quasi sistematica rinuncia al diritto di surrogazione).

Oggi, la sentenza della Corte di Cassazione 11 giugno 2014, n. 13233, pur muovendosi nel solco di quel precedente delle Sezioni Unite (SU 5119/2002, e quindi ribadendo l'assoggettamento delle polizze infortuni non mortali alle regole del ramo danni), alza, e di molto, il piano del ragionamento, predicando una sorta di assoluta inviolabilità del principio indennitario in tutte le sue possibili declinazioni, e dunque anche in relazione al (divieto di) cumulo di poste risarcitorie/indennitarie inerenti alle medesime conseguenze dannose di un unico evento di danno. 
E lo fa senza incertezze di sorta, ma con una perentorietà che, pur non condivisa da chi scrive, costringe gli operatori di settore, come già anticipato, a una riconsiderazione dei propri processi liquidativi.
Di più, se davvero l'indennizzo assicurativo e il risarcimento civilistico non potessero cumularsi, una rigorosa applicazione del principio fondamentale della sana e prudente gestione delle imprese assicurative (artt. 3 e 183 Cap) non solo suggerirebbe ma addirittura imporrebbe a queste ultime di verificare, ai fini di una corretta liquidazione del danno da infortuni o del risarcimento del danno alla persona, l'eventualità di un cumulo tra indennizzo e risarcimento.

I NODI DELLE RESPONSABILITÀ TRA IMPRESE
Pro futuro, dunque, esaminando il problema lato impresa, si dovrebbero strutturare delle procedure volte, anzitutto, ad acquisire le informazioni relative alla compresenza/concorrenza di diritti risarcitori e indennitari, magari ricorrendo a banche dati che diano atto della/delle coperture infortuni stipulate dal danneggiato.
E probabilmente, ma non è questa la sede per sviluppare il tema, si dovrebbero ipotizzare accordi convenzionali volti a evitare rimpalli o ritardi nella gestione della posizione liquidativa che, a tutto danno del cliente/danneggiato, potrebbero essere indotti dal fatto che:
a)da un lato, l'assicuratore privato degli infortuni avrebbe tutto interesse a che il danno sia pagato dall'assicuratore della responsabilità civile, il che potrebbe abbattere o addirittura azzerare un obbligo liquidativo che, nel frequente caso di rinuncia alla surrogazione, rimarrebbe altrimenti pienamente a suo carico;
b)dall'altro, l'assicuratore della Rc avrebbe un contrario interesse a far sì che il danno sia liquidato in precedenza dall'assicuratore degli infortuni, onde portare l'indennizzo a deconto dal danno risarcibile (dal momento che il pagamento integrale non consentirebbe ex post alcun recupero - nemmeno in via surrogatoria - della quota parte corrispondente all'indennizzo teoricamente dovuto dall'assicuratore degli infortuni, il quale potrebbe rifiutarsi di corrispondere somme già erogate a titolo risarcitorio in sede civilistica, diventando l'unico soggetto avvantaggiato dall'applicazione del principio indennitario).

EVIDENTI PROBLEMI APPLICATIVI
Tali spunti, meritevoli di ulteriori sviluppi, consentono tuttavia, sin da subito, di rilevare come, già sul piano pratico, i principi espressi dalla Suprema Corte, pur potendo implicare svariati risparmi di costo per le imprese assicurative, specie nel campo della Rc auto, "cozzino" con problemi applicativi non indifferenti.
Ma, in verità, l'apparente linearità di ragionamento che sorregge l'argomentare della Cassazione merita di esser considerata con un doveroso approccio critico, che potrebbe far ritenere le conclusioni di principio poc'anzi passate in rassegna meno solide di quanto possano sembrare.
Non convince, in primo luogo, il punto di partenza da cui la Corte di Cassazione muove, facendo proprie le conclusioni delle Sezioni Unite del 2002 e propugnando la tesi secondo la quale le assicurazioni infortuni, quando riguardano eventi mortali, rientrano nel campo di inferenza del ramo vita. Nel caso invece in cui siano dedotti in copertura infortuni non mortali (quindi lesioni personali) la garanzia sarebbe del ramo danni, con conseguente applicazione del set normativo applicabile a quel comparto (artt. 1904 -1918 c.c.) e, più in particolare, del principio indennitario.

L'INTRECCIO CON IL DANNO TANATOLOGICO
Per parte nostra riteniamo che la distinzione tra infortuni mortali e infortuni non mortali non meriti particolare ribalta, e anzi cada con le stesse premesse su cui si fonda: ben potrebbe ipotizzarsi che un infortunio mortale dia luogo non solo a esigenze previdenziali (tipiche del settore delle assicurazioni sulla vita) ma anche a un danno risarcibile, trattato come tale e quindi assicurato per la sua componente indennitaria; si ipotizzi, al riguardo, la possibilità di un esplicito (anche se per nulla frequente) richiamo in polizza all'indennizzo del danno da perdita del rapporto parentale/affettivo in capo all'eventuale beneficiario della prestazione. Di più: la potenziale portata risarcitoria (e quindi indennitaria) dell'infortunio mortale potrebbe oggi, a maggior ragione, essere valorizzata, in funzione delle nuove tendenze evolutive della giurisprudenza di legittimità in materia di danno tanatologico (si veda Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361). La necessità di proporre un modello flessibile, e di seguire una chiave di lettura al passo coi tempi sembra, del resto, suggerita dalla stessa impostazione seguita dall'Autorità di Vigilanza a proposito di altre assicurazioni della persona. Il pensiero corre all'assicurazione per le malattie gravi (dread disease) o alle coperture per la non autosufficienza (long term care), che il regolamento Isvap n. 29 inserisce nel ramo vita o nel ramo danni a seconda dell'articolazione complessiva dell'operazione negoziale. 

La sentenza in commento (Cass. 13233, 11 giugno 2014) è consapevole del fatto che il principio del divieto di cumulo (e quindi di eventuale scorporo) sottenda la necessità che le poste in concorso siano tra loro omogenee; il che equivale a dire che la polizza assicurativa infortuni presenta una diversificazione strutturale e un'articolazione di garanzia che varia da prodotto a prodotto e che potrebbe non incidere in alcun modo sulle sorti del risarcimento, quando le poste di ristoro siano tra loro disomogenee (si pensi a un risarcimento per danno biologico nel concorso di una polizza per spese mediche). È quindi alla concreta formulazione della polizza che bisogna riferirsi. E occorre farlo, a nostro parere, uscendo dall'inflessibile abbinamento categorico proposto dalla Suprema Corte (sulla scorta della distinzione tra infortuni mortali/non mortali) bensì analizzando in concreto se la funzione perseguita dall'operazione assicurativa sia previdenziale o indennitaria, a prescindere dalla tipologia dell'infortunio dedotto in polizza.

SE IL CAPITALE ASSICURATO È INGENTE
Al riguardo non può non rilevarsi come buona parte delle coperture diffuse sul mercato, pur facendo riferimento a determinati baremes medico legali e quindi richiamando il concetto di invalidità permanente, quantificano gli indennizzi in funzione di un capitale assicurato, senza alcuna pretesa di ancorare il valore della prestazione assicurativa alla valutazione civilistica del danno biologico. Nulla esclude, pertanto, che l'ammontare di quel capitale liberamente stabilito dalle parti possa risultare tanto elevato da non consentire, in sede di pagamento dell'indennizzo, alcun ragguaglio ai parametri tabellari in uso presso le Corti (si pensi al caso di talune coperture stipulate da/a favore di dirigenti o amministratori per capitali pari a un multiplo della loro retribuzione annua).
L'affermazione secondo cui l'assicurazione contro il rischio di infortuni non mortali sarebbe un'assicurazione contro i danni (e, conseguentemente, assoggettata al principio indennitario) pare quindi ignorare la funzione prevalentemente previdenziale attribuita nella prassi a tale tipologia di polizze.

LE RICADUTE NEGATIVE SUL MERCATO
Portare la pronuncia in commento all'estremo delle sue potenziali ricadute operative potrebbe, dunque, incidere negativamente sul mercato delle coperture infortuni, dal momento che l'utilità di buona parte di quelle garanzie (al di fuori delle coperture delle spese mediche da infortunio, cui deve essere indubbiamente riconosciuta natura indennitaria) viene oggi percepita e apprezzata dall'assicurato nella prospettiva della liquidazione di un capitale "allineato" alle proprie esigenze previdenziali e non all'effettiva misura del danno patito.
Per tutte queste ragioni, sarebbe forse più opportuno inquadrare le assicurazioni infortuni a seconda delle finalità effettivamente perseguite dalle parti, in ossequio a scopi che possono essere tanto indennitari quanto previdenziali. Scopi che saranno rivelati, di volta in volta, dallo stesso regolamento contrattuale che, a seconda dei casi, potrebbe collegare a infortuni del medesimo tipo prestazioni para-risarcitorie (mirate al ristoro dei pregiudizi effettivamente patiti ed ancorate ai concetti di danno biologico, non patrimoniale o patrimoniale) ovvero para-previdenziali (volte, invece, a soddisfare esigenze di risparmio e di provvista correlate al verificarsi di eventi infortunistici). Senza che, in quest'ultimo caso, possano ritenersi violati principi di ordine pubblico, essendo, al contrario, ossequiate finalità previdenziali che hanno rango costituzionale (art. 38, comma 2).

FUNZIONE SOCIALE E WELFARE MIX
E così, privilegiare, o comunque, non mortificare la causa previdenziale che assiste, almeno di fatto e nelle comuni intenzioni delle parti del rapporto assicurativo, la maggior parte delle polizze infortuni equivale a prendere atto del ruolo assegnato alle assicurazioni della persona nella costruzione dei moderni assetti di welfare mix integrato di terzo millennio. Al riguardo, non casualmente, le stesse Sezioni Unite della Suprema Corte hanno saputo evidenziare, qualche anno dopo l'intervento del 2002, la "funzione sociale e umana ritenuta identicamente assolta dall'assicurazione per infortuni come da quella sulla vita" e al ruolo assegnato all'assicurazione privata (pur nelle possibili sue varie modulazioni negoziali) a tutela dei valori previdenziali (Cass. SS UU, 31 marzo 2008, n. 8271).

A prescindere dall'inquadramento (previdenziale o meno) della polizza infortuni, la lettura del principio indennitario offerta dalla Corte di Cassazione con la sentenza 13233 dell'11 giugno 2014, nella sua portata esterna, merita di esser messa in discussione, quanto meno con riferimento alle polizze infortuni, e riconsiderata con approccio più flessibile e possibilista, e comunque, meno fideistico. L'argomento, da solo, meriterebbe una monografia.
Rimane il fatto che le motivazioni svolte dalla Corte a sostegno del proprio teorema appaiono meno ovvie di quanto la sentenza vorrebbe far credere.
Non si vogliono, qui, toccare tutti i possibili snodi critici che meriterebbero di esser sollevati; tanto meno quello fondamentale, afferente alla stessa declamata e assoluta inderogabilità di un principio, quello indennitario, che non risulta declinato nel codice civile con la perentorietà che gli si vorrebbe attribuire e che anzi si trova espresso, per lo più, in varie disposizioni rientranti nel novero delle norme derogabili dalle parti (ex art. 1932 c.c.). Ci riferiamo, ovviamente, agli artt. 1908, 1909, 1910 e 1916 c.c., i quali, peraltro, sembrano in larga parte plasmarsi attorno alle logiche operative/assuntive delle assicurazioni di cose o di patrimoni, in relazione alle quali il rapporto tra valore assicurato, valore assicurabile e valore del bene al momento del sinistro può essere agevolmente determinato.

FUNZIONE RISARCITORIA DELL'INDENNIZZO ASSICURATIVO
Con specifico riferimento all'art. 1916, poi, osserviamo come sia soprattutto su tale norma che la sentenza in commento imbastisce la propria teoria, deducendola dalla necessità di preservare la facoltà dell'assicuratore (che abbia pagato) di surrogarsi nei diritti vantati dall'assicurato verso il terzo responsabile.
Nello svolgimento di tale ragionamento, tuttavia, la Corte di Cassazione dichiara di non volersi curare del fatto che la surrogazione, secondo il prevalente orientamento di legittimità, non opera ipso iure ma per effetto di un'apposita denuntiatio al terzo responsabile. Senonché prima di quella comunicazione l'assicurato rimane libero di richiedere al terzo responsabile il risarcimento del danno già ristorato (integralmente o in parte) dall'assicuratore; come a dire che l'art. 1916, pur naturalmente orientato a evitare il cumulo di indennizzo e risarcimento, non lo esclude in termini assoluti.
Diremo, piuttosto, che l'art. 1916 finisce per attribuire all'indennizzo assicurativo una funzione risarcitoria che va oltre il limite indennitario interno al rapporto tra assicuratore e assicurato, sino ad assumere una particolarissima efficacia esterna, la quale costituisce il presupposto indefettibile per l'operatività di una surrogazione che altrimenti non potrebbe operare. Fermo restando che l'art. 1916 c.c. non è contemplato dall'art. 1932 e che le parti potrebbero dunque derogarvi, escludendo quell'efficacia esterna e riportando l'operatività del principio indennitario soltanto nell'alveo del loro reciproco rapporto, senza che l'assicuratore possa interferire con la vicenda risarcitoria intercorrente tra l'assicurato e il terzo danneggiante.

LA PALLA PASSA ALLE COMPAGNIE
Né convince l'argomento secondo il quale la rinunzia alla surrogazione, tipica nelle polizze infortuni, giovi al terzo responsabile e non invece a colui a favore del quale deve ritenersi disposta, contro una corrispondente riduzione del premio (a sua volta correlata all'aumento del potenziale rischio assunto in polizza).
In conclusione, l'impianto argomentativo della sentenza 13233/2014 fornisce numerosi spunti di approfondimento teorico e costituisce, a nostro parere, un'occasione davvero imperdibile per (ri)affrontare, in termini auspicabilmente definitivi, il delicato tema afferente al ruolo e alla modulazione (o modulabilità) del principio indennitario nelle moderne articolazioni delle coperture danni.
Peraltro, al di là di tali straordinarie suggestioni teoriche, e al netto della qualificazione della copertura infortuni, rimane nell'immediato la necessità per le imprese di considerare se e come avvalersi dei potenziali risparmi di costo che, su larga scala, potrebbero essere indotti da un'acritica (ma certamente giustificabile, allo stato attuale dell'arte) applicazione del divieto di cumulo.



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