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Il danno da perdita della vita non è risarcibile

La sentenza delle Sezioni Unite del 22 luglio 2015 n.15350 pone un altro, forse definitivo tassello verso l’armonizzazione di un sistema della responsabilità e del risarcimento solidaristicamente improntato ed economicamente orientato verso la sua sostenibilità. Il commento dell’avvocato Maurizio Hazan

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Qualche tratto di penna e poche pagine bastano alla Cassazione per respingere, in termini netti e auspicabilmente definitivi, la tesi dell’autonoma risarcibilità, e della conseguente trasmissibilità in capo agli eredi, del danno da perdita della vita, sovente denominato anche come da danno da morte immediata. Avevamo recentemente auspicato, su queste stesse pagine, che le Sezioni Unite pervenissero a tali conclusioni, allineando i termini dello stretto ragionamento giuridico alle risultanze di un’analisi socio economica delle più autentiche esigenze (individuali e collettive) del terzo millennio. E così è stato. Senonché, il lungo tempo impiegato per pubblicare la pronunzia aveva, recentemente, fatto vacillare le sicurezze di coloro i quali, come  chi scrive, già all’indomani dell’ordinanza del  5 febbraio 2014 erano pressoché certi dell’esito della vicenda e del ritorno delle Sezioni Unite agli orientamenti, sostanzialmente consolidati, che si erano formati presso i giudici di legittimità prima della rivoluzionaria sentenza Scarano (1361 del 23 gennaio 2014).

Perché attendere tanto? Perché dover meditare così a lungo la risposta? Forse per produrre una decisione di largo impianto, magari innovativa ed a sua volta rivoluzionaria? Niente di tutto ciò. La sentenza del 22 luglio 2015 n.15350 rimane entro i comodi solchi precedentemente tracciati dalla stessa Cassazione, senza rimeditare alcunché e, anzi, avendo cura di proporre una sorta di riedizione aggiornata e definitiva delle coordinate di base attorno alle quali si struttura lo statuto risarcitorio del danno da morte. Molto rumore per nulla, dunque? No di certo e tutto al contrario. La sentenza in oggetto, pur senza innovare alcunché, costituisce prova di un vero e proprio esercizio “muscolare” attraverso il quale le Sezioni Unite sembrano voler riportare la questione entro il suo più vero e rigoroso ambito teorico di pertinenza, cassando in modo energico, e quasi severo, ogni proiezione ideale e socio/filosofica posta a sostegno della tesi della risarcibilità del danno da perdita della vita. Di più: in modo eloquente e straordinariamente significativo la pronuncia in commento sposa, in termini definitivi, una concezione della responsabilità strettamente correlata alle esigenze della miglior allocazione dei danni “secondo i principi dell’analisi economica del diritto” ; e ciò conferma la traiettoria evolutiva che il sistema stesso della responsabilità civile ha percorso nel tempo, spostando il proprio fuoco dalla nozione di colpa a quella di rischio e, conseguentemente, dall’esigenza di deterrenza e punizione a quella di riparazione e di redistribuzione delle perdite tra i consociati in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all’articolo 2 della Costituzione.

Sullo sfondo rimane viva la (pur non esplicitata) necessità di presidiare il buon funzionamento di un sistema di responsabilità che, al di là degli slanci teorici e degli utopistici proclami, possa reggere in concreto; e possa reggere soprattutto  nell’ambito di quei sistemi obbligatoriamente assicurati che, per primi, realizzano, attraverso il valore dei premi di polizza, quella necessaria redistribuzione collettiva dei costi sociali dei risarcimenti che le Sezioni Unite hanno così fortemente enfatizzato. Non solo. Il ripudio, senza se e senza ma, di qualsiasi finalità (anche solo latamente) punitiva del risarcimento civilistico sembra rispedire al mittente ogni tentativo, recentemente rifiorito, di dilatare le poste risarcibili (a fronte delle rigidità tabellari in ambito assicurativo) attraverso la valorizzazione della gravità della condotta, anche a prescindere dall’entità effettiva delle conseguenze risarcitorie. Calato, dunque, in questo razionale, logico ed economico contesto di riferimento, il danno da perdita della vita tradisce la propria impalpabile cifra ideale. E in quanto tale non riesce a trovar posto, se non su quel piano filosofico e meta giuridico che non può, e non deve secondo le Sezioni Unite, interessare l’interprete del diritto.  In questo senso va letta la (forse) più energica e dura tra le critiche mosse verso la sentenza Scarano, nella parte in cui questa dichiara di volersi ispirare a quella “coscienza sociale” che, nell’attuale momento storico, postulerebbe la necessità di risarcire la perdita della vita. Al riguardo le Sezioni Unite osservano che “la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo”. Ed ancora: “secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n.6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data ‘anche’ al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”.

Tali passaggi rivelano, con un’eloquenza davvero rara, le intenzioni e le motivazioni di fondo che hanno condotto ad una sentenza così tranciante. Con bella coerenza e assoluta rotondità, le Sezioni Unite puntualizzano poi altri aspetti che, integrandosi con i principi da tempo declinati nelle celebri sentenze gemelle del primo novembre 2008, dovrebbero, d’ora in avanti, imprimersi nella mente degli interpreti e degli operatori del diritto senza ulteriori incertezze. Passiamoli in rapidissima, e quasi cronistica, rassegna: se è vero che la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intera collettività è altrettanto vero che tale tutela “giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale:

l’argomento secondo il quale sarebbe più conveniente uccidere che ferire, pur “di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo” stante la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali;

neppure convince la tesi secondo la quale non risarcire la perdita della vita contrasterebbe con il principio dell’integrale risarcibilità di tutti i danni; ciò a maggior ragione laddove si consideri come tale principio non ha copertura costituzionale (Corte Costituzionale n. 132 del 1985, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) “…ed è quindi compatibile con l’esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l’esistenza di un soggetto che tale perdita subisce”;

ed ancora: “la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni ‘punitivi’ (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subìto”.

Del tutto inaccettabile risulterebbe l’affermazione secondo la quale il risarcimento del danno da perdita della vita costituirebbe eccezione al principio cardinale della risarcibilità dei soli danni conseguenza. In proposito le Sezioni Unite osservano che “l’ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l’anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il ‘bene salute’ e il ‘bene vita’ sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità”. In ogni caso, una perdita “per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio”.  E nel caso di morte immediata, o seguita dopo un brevissimo tempo dalla lesione, la non risarcibilità deriva non dalla natura personalissima del diritto leso ma “dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo”. 

Inutile, allo stato, aggiungere altro, se non che la sentenza del  22 luglio 2015 n. 15350 pone un altro e forse definitivo tassello verso l’armonizzazione di un sistema della responsabilità e del risarcimento solidaristicamente improntato ed economicamente orientato verso la sua sostenibilità.   Il trend è quello di una sorta di ritorno al futuro che, al riparo di voli pindarici e tendenze speculative, coniuga la necessità di tutelare i consociati dai sempre maggiori rischi del vivere civile con un approccio al problema non afflittivo ma ridistributivo. Il tutto avendo cura di rifuggire dalla tentazione di privilegiare una logica della monetizzazione a tout prix di ogni evento della vita, anche laddove non vi sia spazio, etico prima ancora che logico, per dar corso ad equivalenze compensative irrealizzabili in concreto. Tutto pare bene in linea, peraltro, con le più recenti tendenze normative in materia di Rc auto e di responsabilità sanitaria, entrambe permeate dal ruolo primario ivi assunto dall’obbligo di copertura assicurativa imposto per legge.  Piaccia o non piaccia, occorre farsene una ragione. 


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