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La responsabilità del medico in assenza di protocolli riconosciuti

La Corte di Cassazione si pronuncia su un caso di richiesta di risarcimento distinguendo tra causa della morte e perdita delle possibilità di evitarla. Il tema riguarda la raccomandazione di monitoraggio della malattia, laddove questo non fosse previsto dalle buone pratiche

La responsabilità del medico in assenza di protocolli riconosciuti hp_vert_img
PRIMA PARTE

Con la pronuncia n. 13509 del 29 aprile 2022 la Sezione Terza Civile della Suprema Corte di Cassazione affronta una vicenda concernente un giudizio da malpractice medica, in tema, sempre attuale, di perdita di chance e dei relativi profili risarcitori.
Nello specifico, il giudizio viene promosso dagli eredi di un soggetto che nell’anno 1985 venne sottoposto a intervento di rimozione di una lesione cutanea cupoliforme sospetta con diagnosi di melanoma: nessun esame istologico fu eseguito, né trattamento di follow up informativo o anche solo di monitoraggio.
Nel 1997 era emersa una metastasi massiva da melanoma, ricollegata dai medici al passato intervento di escissione, e che, nonostante i plurimi interventi e trattamenti succedutisi, aveva condotto alla morte del paziente.
La domanda in primo grado fu accolta con riconoscimento dei danni tutti, anche non patrimoniali iure proprio e iure hereditatis.
La pronuncia veniva riformata dalla Corte d’Appello, che sostanzialmente:
a) escludeva che la inadeguatezza della tecnica operatoria adottata nel 1985, per insufficienza dei margini di escissione, e difetto di successiva radicalizzazione, avesse prodotto effetti apprezzabili, tenuto conto delle mancate recidive locali;
b) affermava la rilevanza causale del mancato follow up, del quale non poteva che rispondere anche il chirurgo come tale e, dunque, quale sanitario dell’azienda coinvolta;
c) e concludeva per la sussistenza del nesso causale rispetto al danno da perdita di chance di sopravvivenza, liquidandolo con una riduzione volta a tener conto della misura di quelle, rispetto all’evento morte.

IL MEDICO OPPONE LA FORMULAZIONE DEI PROTOCOLLI
Ricorrono alla Suprema Corte gli eredi lamentando che la consulenza tecnica giudiziale, pur svolta in secondo grado, aveva indicato che l’esame istologico, cui si era infine proceduto solamente nel 1997, aveva indicato un melanoma al primo stadio, con percentuale di sopravvivenza, in caso di cura e controllo adeguati, al 97% a cinque anni e al 95% a 10 anni. 
In particolare, per i ricorrenti la Corte di merito avrebbe errato sovrapponendo il profilo della causalità a quello dell’evento di danno, con ciò riducendo erroneamente la relativa liquidazione di un terzo, laddove, una volta affermata la sussistenza del nesso eziologico in base al criterio del “più probabile che non”, il danno subito era quello della perdita del risultato, ossia della vita, e non della possibilità di conseguirlo.
Anche il sanitario proponeva ricorso incidentale assumendo, per quanto qui di interesse, che il follow up era rimasto estraneo alla sfera di controllo del chirurgo, tenuto anche conto del fatto che il paziente era seguito da altro professionista di fiducia che lo aveva invitato a farsi operare, come poi correttamente avvenuto, e che la Corte d’Appello aveva accordato il danno da perdita di chance a fronte della diversa domanda di danno da morte, fondandolo su pretese necessità di follow up, successive a dieci anni, non previste dai protocolli dell’epoca, ma da pochi studi scientifici successivi al 1985.

DISTINGUERE TRA CAUSALITÀ E EVENTO DI DANNO
La Suprema Corte rigetta sia il ricorso principale, che quello incidentale per le seguenti motivazioni. Gli Ermellini asseriscono che l’impostazione adottata dalla Corte d’Appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo cui: 
a) la perdita di chance a carattere non patrimoniale consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di minori sofferenze), conseguente, secondo gli ordinari criteri di derivazione eziologica, alla condotta colposa del sanitario, e integra evento di danno risarcibile, da liquidare in via equitativa, quando la “possibilità perduta” sia apprezzabile, seria e consistente (Cass., 09/03/2018, n. 5641, pag. 21, lettera e); Cass., 11/11/2019, n. 28993);
b) l’attività del giudice deve coerentemente tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e distintamente dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra condotta ed evento, procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula un’incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è possibile discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno (Cass., 26/06/2020, n. 12906).

CORRETTO VALUTARE LA PERDITA DELLA POSSIBILITÀ DI EVITARE LA MORTE 
E nel caso di specie, la Corte territoriale si era propriamente conformata a detti principi avendo verificato che:
il melanoma da cui era affetto il paziente era originariamente inquadrabile al primo stadio, con speranze di guarigione vicine al 100%, ovvero del 97% a cinque anni dopo il trattamento e del 95% a dieci anni dopo il trattamento;
era mancato completamente il follow up, doveroso in fieri oltre i dieci anni in base agli studi scientifici compiuti tra il 1980 e il 1990;
quest’ultimo, se eseguito, avrebbe potuto, con altissime probabilità, individuare le sopravvenute metastasi linfonodali ascellari in stato iniziale, in una fase curabile con maggiore efficacia, aumentando in modo concretamente significativo, dunque seriamente apprezzabile, le possibilità di sopravvivenza del malato, tanto più perché particolarmente esposto ai raggi solari esercitando anche il mestiere di skipper.
Invero, anche proseguendo i controlli dopo i dieci anni dal trattamento chirurgico del 1985, si sarebbero potute individuare tempestivamente evoluzioni patogene a fronte delle quali, la percentuale di sopravvivenza sarebbe stata del 59-78% a cinque anni.
Si è dunque rivelata corretta la statuizione di secondo grado, laddove si stava risarcendo la perdita delle possibilità di evitare la morte, non l’evento morte, ed è stata dunque disposta una riduzione equitativa di un terzo dell’importo liquidato riferendosi alla “posta integrale” della perdita, in proprio, del rapporto parentale.

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