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La vaghezza della claims made

La formula assicurativa anglosassone è stata legittimata dall’ordinamento italiano, ma le casistiche portate a giudizio aprono nuovi ambiti di discussione e di variabilità che non permettono di dare certezze

La vaghezza della claims made hp_vert_img
- PRIMA PARTE -

In un momento in cui il mondo è travolto dalle conseguenze pandemiche di un virus subdolo, improvviso e ancora oggi non circoscrivibile, nello stesso mondo in cui il settore sanitario è esposto in prima persona nella lotta al Covid-19, la Suprema Corte è intervenuta nuovamente (vorremmo dire purtroppo) a disallineare i canoni della disciplina assicurativa (e di quella sanitaria in particolare) ponendo nuovamente mano ai margini di legittimità della clausola claims made con la decisione n. 8894 del 13 maggio 2020.
L’impatto di questa decisione (inattesa) rischia di incidere sul mondo dell’assicurazione da colpa sanitaria riducendo ulteriormente, rispetto a quanto già in atto, il margine di offerta sul mercato di idonee coperture, per la ragione che, apparentemente, la pronuncia si pone in funzione demolitiva dei pilastri su cui regge la liceità del patto in parola, solo di recente acquisiti (con la decisione resa dalla stessa Corte a sezioni unite nel 2018) 

Un sinistro fuori tempo massimo
In una vicenda di responsabilità professionale sanitaria, una struttura ospedaliera aveva convenuto in giudizio la propria compagnia di assicurazione per essere manlevata dalla richiesta risarcitoria avanzata dai genitori di un minore.
La compagnia di assicurazione aveva tuttavia eccepito che il contratto conteneva una clausola claims made, che imponeva di denunciare il sinistro entro dodici mesi dalla cessazione di efficacia, e che quel termine era in realtà inutilmente trascorso.
In primo e in secondo grado la domanda rivolta nei confronti della compagnia veniva respinta, sul presupposto che la clausola claims made non solo non veniva giudicata vessatoria, ma anche perché, così concepita, perseguiva interessi meritevoli di considerazione, o meglio, non rendeva il contratto immeritevole di tutela.
La clausola in questione: “prevedeva l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne l’assicurato solo dei sinistri dipendenti da condotte tenute tra il (omissis) e il (omissis), ma a condizione che: a) vi fosse stata richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato entro quel periodo; b) che ricevuta richiesta di risarcimento, entro 12 mesi dalla cessazione del contratto, l’assicurato avesse denunciato il sinistro alla compagnia”.

Il punto debole dell’assicurato
La struttura ospedaliera ha proposto ricorso in Cassazione formulando tre motivi di censura. Respinti i primi due motivi, la Corte affronta il terzo motivo di censura che lamentava la violazione degli articoli 1322 e 1362 C.C..).
Secondo la ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere meritevole la clausola claims made, in quanto, se “è ben vero che in questo caso la clausola non impone di denunciare il sinistro entro il termine di scadenza del contratto, bensì concede dodici mesi da quella scadenza”, è altrettanto vero che “così facendo, pone l’assicurato in una condizione di difficoltà e debolezza, in quanto la denuncia del sinistro all’assicurazione (entro i dodici mesi dalla scadenza) presuppone che l’assicurato abbia ricevuto una tempestiva richiesta di risarcimento dal danneggiato, o meglio, che l’abbia ricevuta tra il (omissis) e il (omissis)”.
In altre parole: “la clausola claims made fa dipendere la prestazione dell’assicurazione non solo dall’evento dedotto in contratto, ma altresì da un ulteriore evento incerto, quale è la richiesta di risarcimento del terzo danneggiato: se questa ultima non è tempestiva, non potrà esserlo neanche quella dell’assicurato. La copertura assicurativa, infatti, decade se il terzo danneggiato decide di formulare la richiesta di risarcimento trascorsi dodici mesi dalla scadenza del contratto. Ossia: la tempestività della richiesta di manleva, dipende dalla tempestività della richiesta di risarcimento da parte del terzo, e questa dipendenza pone l’assicurato in una condizione di ingiustificato svantaggio nei confronti dell’assicuratore, creando una decadenza che il contraente non può evitare”.
La Suprema Corte accoglie il ricorso.

Solo una questione di contenuto ampliato
Si legge nella decisione che la Corte non ignora come “le Sezioni Unite sono ritornate sulla questione (ndr: della validità o meno della clausola claims made), a seguito di due ordinanze di rimessione che ritenevano insoddisfacente la soluzione proposta dalla decisione n. 9140 del 2016”.
In particolare, con la sentenza 22437 del 2018 “hanno riconsiderato la questione della clausola claims made (e di clausole simili) sotto un profilo qui rilevante: hanno cioè ritenuto che l’inserimento in un contratto di assicurazione di una clausola del tipo claims made non stravolge il tipo contrattuale, comportandone l’atipicità, e dunque non si applica dell’art. 1322 C.C., comma 2, che, quanto ai contratti atipici, richiede che ne sia valutata la meritevolezza”.
In realtà “l’inserimento nel contratto di assicurazione di una clausola siffatta mantiene inalterato il tipo negoziale, ampliandone semmai il contenuto o comportandone un adattamento agli interessi delle parti, cosi che non si tratterà di valutarne la meritevolezza funzionale (astratta o concreta che sia) bensì di valutare se la determinazione del contenuto contrattuale è avvenuta nei limiti della legge (art. 1322 C.C., comma 1)”.
È stato “di conseguenza ovvio affermare che ‘Il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole on claims made basis, quale deroga convenzionale all’articolo 1917 C.C., comma 1, consentita dall’articolo 1932 C.C., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322 C.C., comma 2, ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322 C.C., comma 1, della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge’ (Cass. Sez. Un 22437/ 2018)”.

La Claims made rimane un contratto tipico
In altre parole, si è passati da un giudizio di meritevolezza della clausola claims made (previsto dalla Cassazione Sezioni Unite n. 9140) a un giudizio sulla “causa in concreto del negozio”, cioè su “come la libera determinazione del contenuto contrattuale, tramite la scelta del modello claims made, rispetti, anzitutto, i limiti imposti dalla legge, che il primo comma dell’art. 1322 C.C. postula per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo, in ragione del suo farsi concreto regolamento dell’assetto di interessi perseguiti dai paciscenti” (previsto dalla Cass. Sezioni Unite n. 22347/2018).
Possiamo prescindere oggi, pertanto, dalla disputa su “come si valuti la meritevolezza: se attenga al tipo o alla causa, se possa farsene applicazione ai contratti tipici in aggiunta al criterio della illiceità (art. 1343 C.C.)”, in quanto: “il contratto di assicurazione cui sia apposta la clausola” claims made “non diventa, per via di tale inserimento, un contratto atipico, e dunque sfugge, come ricordato dalle Sezioni Unite del 2018, sopra citate, alla disciplina dell’articolo 1322 C.C., comma 2”.
Il contratto di assicurazione con clausola claims made resta dunque: “un contratto tipico, cui le parti hanno aggiunto ulteriore contenuto” e quindi, ricordano le citate Sezioni Unite n. 22347/2018, dovrà farsi riferimento: “all’articolo 1322 C.C., comma 1, il quale prevede in tal caso che l’autonomia delle parti, quando si esercita all’interno del tipo negoziale, senza alterarlo e trasformarlo in un contratto atipico, deve mantenersi nei limiti imposti dalla legge”.

(La seconda parte dell’articolo la potete leggere cliccando qui)

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