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La claims made resiste, tranne dove serve

Con la sentenza 9140 del 6 maggio scorso, molto attesa, la Cassazione è intervenuta sul delicato tema della validità della clausola nel contratto assicurativo della responsabilità civile. E lo ha fatto a Sezioni Unite, considerando la questione come di “massima e particolare importanza” per l’intero mercato di riferimento

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L’intenzione era quella di dirimere, una volta per tutte, le dispute che, nel corso degli anni, avevano occupato la dottrina e la giurisprudenza, da tempo divise sulla pretesa vessatorietà, e prima ancora sulla eventuale nullità di una formula assicurativa ormai assurta a regola, almeno nel settore delle responsabilità professionali (quelle cioè esposte a rischi di sinistrosità lungolatente). 

La situazione, in effetti, era divenuta inaccettabilmente instabile dopo che la stessa Cassazione, sull’onda del pensiero del consigliere relatore Marco Rossetti, aveva minato alle basi il sistema della claims made, affermando (sez. III, 13 marzo 2014, n. 5791 - presidente Russo, relatore Rossetti) l’inammissibilità dell’assicurazione del rischio putativo (al di fuori di quanto stabilito dall’articolo 514 del Codice navigazione) e, soprattutto, la nullità, ai sensi dell’articolo 1895 del Codice civile di qualsiasi garanzia tesa a coprire rischi pregressi e, comunque, a indennizzare, in modo retroattivo, potenziali sinistri causalmente riferibili a situazioni preesistenti alla stipula del contratto. Secondo una tal prospettazione, la clausola claims made, ben peggio che vessatoria, doveva intendersi radicalmente invalida, e sostituita di diritto con formula act committed, in conformità al paradigma di legge (quello “odinario” disegnato dall’articolo 1917 c.c.).
Ovvio che una tal presa di posizione poteva avere impatti straordinari sugli attuali assetti delle polizze maggiormente in uso nel settore della Rcg.

A nostro parere, peraltro, una tale rigidità di impostazione non poteva assolutamente condividersi, non potendosi in alcun modo sostenere che la claims made azzeri qualsivoglia elemento di alea e, quindi, tradisca lo schema causale del contratto di assicurazione. Tutt’al contrario, quella soluzione assicurativa tende a garantire il rischio, che rimane tale, correlato non tanto alla commissione di un fatto generatore di responsabilità quanto all’effettiva presentazione di una richiesta risarcimento. Richiesta che potrebbe, in concreto, mancare, per le più svariate ragione, e in assenza della quale, del resto, nessun pregiudizio patrimoniale in capo all’assicurato si porrebbe. La ripresa del passato e la possibilità di assicurare rischi i cui presupposti causali sono antecedenti al contratto assicurativo sono, comunque, pacificamente ammesse dal nostro codice civile, nella disciplina dell’assicurabilità del vizio intrinseco (articolo 1906 c.c.). 

Era dunque lecito attendersi, al riguardo, una netta presa di posizione delle Sezioni Unite. E tale è stata.
Con energica motivazione, il Supremo Consesso sembra sancire la vittoria della claims made su tutti i pregiudizi che l’avevano sin qui accompagnata. 

E così la nullità di quella clausola viene espressamente esclusa: 
- sia sotto il profilo della liceità della copertura di situazioni pregresse, ove sconosciute e (in ogni caso, diremmo noi) laddove rimanga l’incertezza circa la pretesa risarcitoria del terzo; 
- sia rigettando la tesi della mancanza di causa per deviazione dallo schema dell’articolo 1917 c.c., non rientrando tale norma tra quelle dichiarate dal legislatore inderogabili; 
- escludendo che la formula claims dia luogo a decadenze convenzionali, sanzionate ex articolo 2965 c.c.

Con altrettanta energia, le Sezioni Unite respingono poi la tesi della vessatorietà: la claims made delimita il rischio assicurato (e quindi l’oggetto della copertura) secondo quanto le parti hanno ritenuto di convenire e non costituisce affatto una limitazione della responsabilità negoziale dell’assicuratore.

Ciò posto, la Suprema Corte dimostra di ben conoscere le insidie insite in un possibile utilizzo distorto della formula claims made: ed invero, a seconda della maggior e minor ampiezza della ripresa del passato, quel modello assicurativo potrebbe risultare più o meno favorevole per l’assicurato, sino – in taluni casi - ad eccessivamente comprimerne le aspettative di garanzia.    Ma tali insidie, non costituiscono ragione di “caduta” del modello, in sé e per sé considerato: dovranno esser verificate caso per caso, onde comprendere se la vendita di un prodotto eccessivamente scarno, quanto ad ambito di coperture, sia stata possibile carpendo la buona fede dell’assicurato o, comunque, violando le regole di correttezza che presidiano la gestione del rapporto assicurativo, in ogni sua fase. Di più, in talune ipotesi, secondo la Corte,  potrebbe accadere che la clausola, atipica, non regga il vaglio di meritevolezza imposto dall’art. 1322 c.c. (come nel caso di polizza con “pregressa” illimitata acquistata dall’esordiente).

Ma, ripetesi, si tratta di questioni che non inficiano la validità del modello in oggetto.  
Può dunque scriversi, a chiare lettere, che la formula claims made, come già da anni avvenuto in altre esperienze europee, costituisce prototipo contrattuale perfettamente lecito.  
Ma ciò non esaurisce i termini della questione, anzi. 
Ed invero, se al primo impatto la sentenza sembra salvifica, e lo è, in termini generali, per quel che attiene ai rapporti tra assicurato e compagnia, a una più attenta lettura emergono profili tali da minare, in concreto, la tenuta del modello, rendendolo inapplicabile proprio nel settore in cui ha incontrato maggiore diffusione: quello delle polizze della responsabilità professionale.

Al riguardo la Cassazione prende una posizione che, ci permettiamo di rilevarlo, avevamo evocato su questa rivista in tempi davvero non sospetti (Hazan – Zorzit, "L'assicurazione della responsabilità sanitaria nell'ultima versione del decreto Balduzzi: un'autentica rivoluzione d'ottobre?" del 2012): in quell’occasione, commentando di nuovi obblighi assicurativi in sanità, avevamo avuto modo di osservare  come si potesse, già allora, sostenere che una polizza obbligatoria, prima ancora di proteggere il patrimonio del medico responsabile, dovesse assolvere a una funzione di effettiva tutela del paziente/danneggiato (come del resto espressamente dichiarato dall'articolo 3 comma 5 lettera E del dl 138 del 2011). E, sul punto, scrivevamo che "ciò equivale a dire che il professionista non potrà adempiere l'obbligo assicurativo ricorrendo a coperture incomplete o a una sola polizza che, strutturata secondo il modello claims made, lasci scoperti ambiti di garanzia correlati ad episodi di malpractice relativi ad attività svolte a favore del paziente in costanza di incarico e da questi non denunziati se non in una fase successiva alla cessazione della copertura assicurativa". 

Oggi le Sezioni Unite confermano questo possibile corto circuito, sostenendo, a loro volta, che, specie in un sistema non presidiato dall’obbligo a contrarre bilaterale, "Il giudizio di idoneità della polizza (nrd: di una polizza di assicurazione obbligatoria della Rc professionale) difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura". Essendo qui in gioco non tanto i rapporti tra compagnia e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, le polizze non possono essere strutturate in modo tale che il danneggiato rimanga "esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico".

Di qui l'affermata incompatibilità della claims made nelle polizze professionali.
Ecco dunque che il lettore (l’assicuratore…) che abbia tirato un sospiro di sollievo leggendo la sentenza sin quasi alla fine si sarà sentito in ultimo inevitabilmente frustato proprio da quest'ultima postilla, aggiunta quasi distrattamente ma destinata a vulnerare il sistema claims proprio là, dove maggiormente se ne sente il bisogno.

Tutte da stabilirsi, comunque, le conseguenze di tale dichiarata incompatibilità. Difficile, allo stato, comprendere se la stessa possa condurre a una insanabile illiceità della causa o ad un giudizio di immeritevolezza ex articolo 1322 c.c., posto che l’interesse che si assumerebbe violato non è del contraente assicurato quanto di un soggetto terzo estraneo alla polizza (il danneggiato). 
Certo il professionista che si assicuri con clausola claims, e senza postuma, potrebbe aver violato il proprio obbligo di legge (con possibile esposizione a sanzione disciplinare). E in ogni caso sono tutte da indagare le possibili ricadute, in termini di responsabilità, sulla compagnia e sull’intermediario, per aver collocato un prodotto non adeguato, non conforme a legge e foriero di danni a carico del soggetto indirettamente protetto dalla copertura (ancora una volta il danneggiato).

In attesa di quel che l’autorità di vigilanza potrebbe dire al riguardo, le Sezioni Unite giungono addirittura a voler indirizzare il mercato e il legislatore a una assoluta attenzione nella imbastitura dei futuri modelli di assicurazione di Rc professionale (testualmente: "al momento della stipula delle 'convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti', nonché in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l'idoneità dei relativi contratti").

All’epoca in cui avevamo pronosticato il problema (Hazan - Zorzit citato) ci eravamo spinti a ritenere la questione superabile attraverso l’introduzione della regola della non opponibilità delle eccezioni, quale naturale corredo dell’eventuale introduzione, a favore del danneggiato di un’azione diretta.
Oggi, res melius perpensa, ci permettiamo di sollevare qualche dubbio al riguardo. In primo luogo perché la regola della non inopponibilità sembra di futura introduzione solo per l’assicurazione della responsabilità sanitaria. Secondariamente perché tale regola potrebbe rendere il cliente impermeabile alle (sole) limitazioni di polizza ma non invece all’eccezione di vera e propria, radicale, estraneità del sinistro rispetto al contratto.  

Il tema, in ultima analisi, è davvero complesso e pericoloso per la sostenibilità stessa delle assicurazioni professionali. Merita, dunque, di esser preso in serissima considerazione, abbandonando subito i facili trionfalismi che sembrano aver accompagnato, tra gli operatori del settore, la prima lettura della sentenza. 

Occorre trovare una soluzione: e al più presto.

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