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Infortunio Covid-19: quali riflessi sulle responsabilità?

L’articolo 42, comma 2, del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 ha posto a carico della gestione assicurativa dell’Inail la tutela dei lavoratori colpiti dall’infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro. La mancanza di chiarezza della legislazione emergenziale e di protocolli da seguire, anche a causa dell’ampio spazio riservato alle autonomie regionali, rischia di confondere i limiti di rischi e oneri. Il tema, tra obblighi datoriali e disciplina del regresso, è di grande impatto per il mondo assicurativo, in uno scenario di sinistrosità che potrebbe registrare una crescita esponenziale tale da mettere in crisi l’andamento tecnico del ramo Rco

Infortunio Covid-19: quali riflessi sulle responsabilità?
La severa emergenza Covid-19 ha impattato e continua a impattare gravemente il mondo del lavoro aprendo scenari di crisi da cui non sarà facile rialzarsi. Prevenire il rischio di contagio è naturalmente il leitmotiv. E la ripresa delle attività  economiche, produttive e sociali, all’esito del duro periodo di lockdown, dovrà avvenire (così dice il dl n. 33 del 16 maggio 2020)  “nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali.” La  mancata osservanza, prosegue il dl, “dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali, di cui al comma 14 che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.
La messa in sicurezza dei lavoratori, specie nei luoghi di lavoro a più alta densità aggregativa, costituisce dunque l’obiettivo primo che ciascun ente datoriale, per poter riprendere la propria attività, deve ossequiare, nel rispetto di assetti regolamentari che mirano al delicato contemperamento tra le (comunque prioritarie) esigenze di tutela della salute pubblica con quelle di salvaguardia della produzione e delle economie. 
L’ampio spazio riservato alle autonomie regionali rischia, peraltro, di far sì che tali linee guida e protocolli a cui doversi riferire si rivelino tutto fuorché stabili e certe, proseguendo l’andamento zigzagante di una legislazione emergenziale che, forse inevitabilmente, è parsa talvolta procedere un poco a tentoni.
In questo quadro mobile, non possono che condividersi le preoccupazioni espresse dal mondo dei datori di lavoro, i cui compiti di presidio della sicurezza enfatizzano le loro potenziali responsabilità al cospetto di rischi di contagio (sul luogo di lavoro) non sempre davvero arginabili e contenibili. Preoccupazioni tanto più serie ove calate all’interno di quella normativa emergenziale che, dopo aver definito ai fini lavoristici il Covid-19 come un infortunio, ne demanda la gestione all’Inail che, a sua volta, ne valuta l’indennizzabilità sulla base di meccanismi presuntivi tesi a dar per provata  la genesi professionale e lavoristica di contagi che, in realtà, ben potrebbero essersi originati altrove.
Ci riferiamo all’articolo 42, comma 2, del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, che ha posto a carico della gestione assicurativa dell’Inail la tutela dei lavoratori colpiti dall’infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro.
L’idea di tutelare i lavoratori colpiti da Covid-19 attraverso l’intervento dell’assicuratore sociale risponde evidentemente a scelte di sostegno pubblico alla crisi, derogando ai principi di diritto comune e dunque  ampliando, a quegli specifici fini, il concetto (civilistico) di infortunio e abbattendo (se non azzerando) l’onere degli aventi diritto sul versante della prova del nesso di causa (lavoristica) del danno da Covid-19.
Senonché, la volontà normativa di ricondurre il più possibile l’infezione all’interno della tutela assicurativa dei lavoratori (a dispetto dell’origine niente affatto certa dei singoli episodi di contagio) potrebbe aprire scenari inquietanti, a scapito dei datori di lavoro, in relazione al riverbero dei descritti automatismi sulle loro teoriche responsabilità civili e penali e sul rischio di esser percossi dall’Inail in via di regresso per recuperare quanto risarcito ai singoli aventi diritto (oltre che di dover affrontare eventuale contenziosi promossi dai lavoratori per ottenere il pagamento di risarcimenti a titolo di danno differenziale o complementare). E ben si comprende come, specie nei primi tre mesi dell’emergenza, tale esposizione di rischio sia difficilmente  accettabile (tantomeno in termini generali e sistematici) dal mondo datoriale, già messo a dura prova da una crisi economica che non conosce precedenti. Ciò è ancor più vero al cospetto della forza con cui il virus ha scompaginato ogni regola organizzativa, nell’ambito di un contesto normativo e regolamentare instabile e cangiante e di uno scenario caratterizzato dalla debolezza di sicuri riferimenti scientifici.
Ma è davvero così? Può davvero affermarsi che siano i datori di lavoro a (rischiare di) dover sostenere, in ultima istanza, il peso dei contagi, esponendosi a responsabilità (il più delle volte) difficili a decifrarsi e a rischi di inflazione contenziosa che, in ogni caso, pare tutto fuorché opportuna nei presenti transiti emergenziali? L’Inail può davvero agire, come nelle ordinarie situazioni infortunistiche, per recuperare dal datore di lavoro ciò che il legislatore, attraverso meccanismi di sostanziale mutualizzazione del rischio infettivo Covid-19, impone  di pagare ai lavoratori contagiati? 
Non si tratta di interrogativi di poco conto, e le preoccupazioni che vanno montando appaiono più che legittime. Anche per i riflessi assicurativi sulla garanzia Rco. 
È proprio per questo, e con intenzioni soi disant tranquillizzanti, che l’Inail, lo scorso 15 maggio, è intervenuto con una nota stampa chiarendo (a lettere cubitali) che se ci si ammala di Covid-19 sul luogo di lavoro il datore non è responsabile in via automatica (in forza della presunzione di origine professionale della malattia/infortunio Covid-19) ma solo se c’è dolo o colpa grave. “Il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa”. 
Ora non ci pare che questa precisazione brilli per rilevanza e sagacia. Al contrario, declina l’ovvio.
Al di là di come l’Inail concluda la sua nota, ossia cercando di rassicurare tutti e affermando che la situazione emergenziale renderebbe “peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”, era lecito aspettarsi un intervento di miglior sostanza, teso a dissipare alcuni dubbi sistematici che il citato articolo 42 ha sollevato, sul piano dell’interpretazione letterale e razionale.  
Mi riferisco al significato da accordare a tale norma nella parte in cui afferma che “gli eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa”. Il tema è di grande impatto anche per il mondo assicurativo, dal momento che l’infezione da Covid-19 potrebbe dar corso a una esplosione di richieste di attivazione di coperture Rco, a fronte di una sinistrosità che potrebbe pro futuro registrare andamenti crescenti esponenziali e tali da mettere in crisi l’andamento tecnico del ramo. 
È dunque importante comprendere se il rischio di regresso sia stato o meno attenuato, o addirittura scongiurato, dalla norma emergenziale, attutendo dunque l’impatto del Covid-19 sulla garanzia assicurativa, che rimarrebbe confinato alla copertura delle pretese che il lavoratore potrebbe comunque far valere a titolo di danno differenziale o complementare; ovvero se questo rischio rimanga del tutto attuale, non potendosi attribuire alla norma una portata deresponsabilizzante generale, quanto al rapporto tra Inail e datore di lavoro. Il tutto tenendo in considerazione il regime rigoroso delle responsabilità datoriali, da adattare comunque ai tempi del Covid-19.
E invero l’utilizzo del verbo gravare, a una prima lettura, sembrerebbe (lessicalmente) escludere che l’assicuratore sociale possa sgravarsi dell’onere, che dovrebbe dunque rimanere a suo carico senza possibilità di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro. Ma una seconda lettura prediligerebbe una interpretazione più conservativa, in cui non ci dovremmo attendere sostanziali modifiche agli assetti della disciplina di base, limitando l’impatto innovativo alle conseguenze degli infortuni da Covid-19 sui meccanismi di tariffazione di premio, che sarebbero neutralizzati ai fini dell’applicazione del malus sul singolo datore di lavoro interessato dai singoli eventi infortunistici. 
Entriamo dunque nel cuore del problema.

Inquadramento del tema, tra norma emergenziale e principi di base
Per poter provare a orientarsi tra le diverse interpretazioni possibili, la disposizione in esame va letta interamente: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, […] i predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante «Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019». La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”. 
Vi è dunque da chiedersi se il legislatore abbia utilizzato il lemma “gravare” in termini lessicalmente esatti e tali da escludere che l’assicuratore sociale possa sgravarsi dell’onere, che dovrebbe dunque rimanere a suo carico senza possibilità di agire in regresso nei confronti del datore di lavoro. Oppure se abbia soltanto voluto dire che, gravando sulla gestione assicurativa, gli infortuni Covid-19 non gravano sul singolo datore di lavoro ai soli fini della determinazione della tariffa, nell’ambito del particolare sistema tariffario (bonus/malus) dell’Inail.
Prima di risolvere tali quesiti può essere opportuno svolgere alcune considerazioni utili a inquadrare meglio il contesto entro il quale calare la questione.
La portata della garanzia assicurativa Inail può intendersi in qualche modo double face, in quanto non soltanto rivolta a tutelare il lavoratore dal suo rischio di infortunio sul lavoro, ma anche a esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità civile, conseguente a quell’evento infortunistico.
Per esercizio di massima semplificazione, potremmo dire che, al netto delle peculiarità che connotano una assicurazione sociale, l’impianto di base della copertura Inail assomiglia a una polizza collettiva privata stipulata dal datore di lavoro, che se ne assume il costo, per proteggere i suoi dipendenti da rischi infortunistici che potrebbero anche implicare la sua responsabilità civile. E nel caso in cui tale responsabilità venisse implicata, l’indennizzo assicurativo andrebbe portato a deconto del risarcimento eventualmente dovuto al dipendente in base ai criteri civilistici (senza  cumulo, in ossequio al principio indennitario).
Sennonché la disciplina Inail si connota per alcune ulteriori finalità che complicano questo schema triangolare: quelle di incentivare il datore di lavoro a ossequiare il suo dovere di messa in sicurezza del luogo di lavoro e di protezione del dipendente. In questo senso la copertura della responsabilità civile del datore, laddove implicata, non è assoluta, essendo al contrario esclusa nel caso in cui la stessa si riveli così grave da assumere rilevanza penale. In quel caso, l’Inail avrebbe titolo per recuperare in via di regresso dal datore l’indennizzo corrisposto al dipendente. 
La copertura assicurativa prestata dall’Inail sarebbe dunque volta a garantire non soltanto il lavoratore, ma anche il cosiddetto rischio professionale del datore di lavoro, ma con il limite dell’illiceità penale.
E così, come osservato dalla Corte Costituzionale n. 405/1999, la garanzia riparatoria prestata dall’Inail si fonda sul rapporto trilaterale tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale, e mira a realizzare un contemperamento di reciproci diritti e interessi.
È in questo contesto che va calata la disciplina emergenziale che riconduce expressis verbis le infezioni da Covid-19 all’interno della copertura Inail a titoli di infortunio.  

La protezione del lavoratore e l’onere della prova in caso di contagio da Covid-19
Come ormai già noto, la qualificazione dell’infezione da Covid-19 in termini di infortunio costituisce il portato di una disciplina emergenziale che mira a rafforzare, di fronte all’ondata pandemica, la tutela dei lavoratori. Il tutto attraverso l’intervento dell’Inail e facilitando l’accesso all’indennizzo infortunistico anche in forza di un (discutibile) principio presuntivo volto, nelle situazioni ad alta densità aggregativa,  a ricondurre causalmente (e diremmo quasi automaticamente) il contagio allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Una volta (fittiziamente) equiparato il Covid-19 a un infortunio, vi era infatti da chiedersi come il lavoratore (sul quale incombe l’onere probatorio) potesse dimostrare di aver contratto l’infezione durante lo svolgimento delle attività lavorative o in “occasione di lavoro”.
Tanto più in un contesto in cui la stessa comunità scientifica non sembra a tutt’oggi padroneggiare le conoscenze di un virus le cui coordinate non si sono ancora del tutto rivelate. Sussistono persistenti dubbi circa le modalità di contagio e, ancora oggi, non paiono esserci sistemi in grado di ricostruire con sufficiente certezza le linee di diffusione del virus. Il tutto considerando il fatto che, come sostenuto dal Ministero della salute, “il periodo di incubazione rappresenta il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici. Si stima attualmente che vari fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni”. Il che complica, e molto, l’onere di fornire la prova che l’infezione sia avvenuta proprio in occasione di lavoro, e che il contagio non sia invece avvenuto in altri contesti aggregativi in cui il soggetto sia venuto a trovarsi al di fuori del lavoro (ad esempio, nel corso di una festa privata, a bordo di un treno o all’interno di un grande magazzino). 
Al riguardo, la Cassazione aveva evidenziato in una pronuncia del 2004, come in tema di infortuni sul lavoro derivanti da infezione virulenta “la penetrazione dell’agente, attraverso la cute o le mucose, può avvenire in più occasioni e quasi mai è possibile stabilire se in una singola occasione la carica infettante e virulenta dell’agente stesso possa essere sufficiente o meno per determinare l’infezione. In tali condizioni, diventa difficilissimo stabilire con certezza (e non con probabilità) se non in pochi casi del tutto particolari, il preciso momento di penetrazione di un agente virulento” e, pertanto, “la sua individuazione perde la sua importanza a fronte del dato epidemiologico, certo e controllabile” (Cass. 08/04/2004, n. 6899).
In quella sentenza, la Cassazione aveva rilevato come sia necessario tener conto del cosiddetto criterio epidemiologico: “il nesso tra infezione e attività lavorativa può provarsi a mezzo di presunzioni semplici”, senza che via sia la necessità di richiedere la prova (specifica e quasi impossibile) che “un determinato paziente sia portatore del virus e che una puntura accidentale sia avvenuta durante il trattamento terapeutico praticato, senza considerare che un infermiere – addetto a somministrazioni di terapia per bocca, iniezioni intramuscolari e fleboclisi e medicazioni di pronto soccorso – è esposto, rispetto alla restante popolazione, al rischio di contrarre determinati tipi di epatite in misura assai maggiore”. 
Aderendo a tale principio, enfatizzato dalla finalità protettiva di cui si è detto, l’Inail ha sostenuto la cosiddetta presunzione semplice di origine professionale, chiarendo nella propria circolare n. 13 del 3 aprile 2020 che “nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.  
L’Inail ha poi puntualizzato che “le predette situazioni non esauriscono, però, come sopra precisato, l’ambito di intervento in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice. […] Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.
Insomma, il regime probatorio agevolato esalta, forse oltre i limiti del giusto, la finalità protettiva sulla quale si basa il “fondamento della tutela assicurativa” dell’Inail, che “ai sensi dell’art. 38 Cost., deve essere ricercato, non tanto nella nozione di rischio assicurato […] ma nella protezione del bisogno a favore del lavoratore” (Cass. n. 5066/2018). 
Tuttavia, per quanto più orientata a sostenere il lavoratore, la tutela dell’Inail non avrebbe potuto non considerare le concorrenti esigenze di protezione del datore di lavoro, nei presenti transiti emergenziali. La decretazione d’urgenza con cui il legislatore ha provato (e sta provando) a fronteggiare i drammatici momenti del Covid-19 ha certamente considerato i particolari obblighi a cui i datori di lavori sono tenuti per contenere, nei limiti del possibile, la diffusione del contagio sul luogo di lavoro. Ma non poteva non tener conto della altrettanto vitale esigenza di proteggere gli interessi del mondo datoriale, delle imprese e dell’industria. Un mondo sicuramente e gravemente percosso dalla crisi economica che il Covid-19 inevitabilmente ha portato, porta e porterà con sé. 
Ecco dunque una serie di misure volte, nei limiti del possibile, a non far gravare pesi eccessivi sul già fragile e debilitato equilibrio economico della maggior parte dei datori di lavori colpiti dalla crisi.
E di questo anche la disciplina dell’Inail, nella sua duplice funzionalità protettiva, avrebbe dovuto occuparsi nel momento in cui si apriva così francamente alla presa in carico, a titolo di infortunio, delle infezioni da Covid-19 contratte (per di più, presuntivamente) sul luogo di lavoro.
È muovendo da queste premesse che occorre perciò procedere con l’interpretazione dell’articolo 42, nella parte in cui disciplina le ricadute, in termini di costo della tutela dell’Inail, sui datori di lavoro.

La tesi dell’integrale addossamento di ogni  costo sulla gestione assicurativa e della  conseguente esclusione del diritto di regresso 
Il fatto che la norma in commento dica espressamente che  gli infortuni da Covid-19 “gravano sulla gestione assicurativa” sembra lasciare intendere che l’articolo 42 sia mosso da una finalità sociale bivalente, volta a tutelare non solo i lavoratori, ma anche i datori di lavoro, anch’essi travolti dalle conseguenze del Covid-19 e anch’essi colpiti dalla difficoltà di comprendere, nell’emergenza, quali fossero le misure idonee, se non a fronteggiarlo, almeno a contenerlo (prima e durante il periodo di lockdown).
In quest’ottica si potrebbe sostenere che, usando consapevolmente il lemma “gravano”, il legislatore abbia voluto affermare che l’onere della presa in carico di quegli infortuni cada e rimanga sull’Inail, senza possibilità di “sgravarsi” a sua volta e dunque di agire in via di regresso nei confronti di datori di lavoro. Datori la cui responsabilità, nell’emergenza Covid-19, non può che essere, se non esclusa, almeno temperata in ragione delle straordinarie e catastrofali conseguenze globali di una pandemia che, come detto, non ha ancora rivelato le esatte coordinate di sé.
Indugiando su aspetti semantici e linguistici, possiamo osservare come gravare, nel vocabolario della lingua italiana, significhi “caricare di un peso, opprimere imponendo un peso”. E dunque se la norma volesse imporre all’Inail il peso degli infortuni sulla gestione assicurativa, ben potrebbe argomentarsi che quel peso lì deve rimanere, senza possibilità per l’ente di sgravarsi attraverso azioni di rivalsa che finirebbero per ulteriormente compromettere la già delicata situazione dei datori di lavoro, di per loro percossi dalle gravi conseguenze della crisi Covid-19.
Al di là di tale esercizio lessicale, altri utilissimi argomenti possono essere desunti, sul piano della ratio legis, dalla  relazione al decreto Cura Italia (presentata in prima approvazione al Senato), nella quale testualmente si legge che “l’ultimo periodo dell’articolo in esame, nel precisare che gli eventi lesivi derivanti da infezioni da coronavirus in occasione di lavoro gravano sulla gestione assicurativa dell’Inail, dispone che gli eventi in questione non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, di cui agli articoli 19 e seguenti, del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 27 febbraio 2019, concernente l’approvazione delle nuove tariffe dei premi Inail e le relative modalità di applicazione. Ciò al fine di non far pesare direttamente su ciascun datore di lavoro pubblico o privato, l’eventuale aggravio di premio assicurativo derivante da un’oscillazione in malus scaturita dall’incremento dell’incidenza infortunistica/tecnopatica per infezione da coronavirus (SARS-CoV-2), non certamente attribuibile a specifiche responsabilità o inadempienze del datore di lavoro, in considerazione delle caratteristiche che ha assunto il contagio. Pertanto, in analogia a come l’istituto opera per altre tipologie di infortuni non direttamente imputabili al datore di lavoro, come ad esempio gli infortuni in itinere, gli effetti degli eventi in esame non fanno parte del bilancio infortunistico dell’azienda in termini di oscillazione del tasso applicato, ma sono attribuiti secondo principi di mutualità, mediante forme di «caricamento» indiretto sul tasso medio nazionale”.
Il fatto che a sostegno della norma si dica a chiare lettere che gli infortuni da Covid-19, in considerazione delle caratteristiche pandemiche del contagio, non sarebbero certamente attribuibili a specifiche responsabilità o inadempienze del datore di lavoro, sembra quasi dar per presupposto che la condizione di esperibilità del regresso (e dunque la responsabilità datoriale)  in caso di Covid-19 non sia integrata. Ergo, potrebbe sostenersi il seguente sillogismo: a) infortuni gravano sull’Inail; b) datore di lavoro non ha responsabilità; c) l’Inail non ha regresso verso il datore di lavoro. 
Il tutto in forza di una vera e propria presunzione di non responsabilità pandemica in capo al datore di lavoro (che della pandemia è vittima al pari dei suoi dipendenti, non disponendo, specie nei primi giorni dell’emergenza, di informazioni o risorse utili per contenere un rischio infettivo tanto anomalo quanto drammatico). Presunzione che in qualche modo farebbe da contrappeso alla diversa presunzione semplice di origine professionale di cui l’Inail intende avvalersi per ricondurre causalmente determinati contagi all’interno di ambienti lavoristici ad alta densità aggregativa.
Il richiamo della relazione al sinistro in itinere, ossia a quei sinistri avvenuti in occasione degli spostamenti effettuati per cause lavorative (classico esempio è l’incidente stradale avvenuto sul tragitto casa-lavoro), sembrerebbe avvalorare la tesi di una sostanziale esenzione del datore di lavoro da un’azione di regresso da parte dell’Inail.
Infatti, con riferimento a tale categoria di sinistri, la giurisprudenza di legittimità ha precisato da tempo che l’azione di regresso dell’Inail, nei confronti del datore di lavoro, tendente al rimborso delle somme erogate dall’istituto al lavoratore in conseguenza delle lesioni da lui riportate in un sinistro in itinere, non è proponibile ove l’istituto medesimo non deduca e non provi l’esistenza di un fatto costituente reato perseguibile d’ufficio, commesso dal datore di lavoro o dai dipendenti di cui questi debba rispondere a norma dell’art. 2049 c.c. (v. Cass. SS.UU. 6229/1996). Il che, appare abbastanza improbabile proprio nei sinistri in itinere, dove nella maggior parte dei casi l’attività del lavoratore esce dalla sfera di controllo del datore di lavoro. Infatti, proprio con riferimento ai sinistri in itinere la rivalsa dell’Inail verrebbe esercitata in maniera pressoché automatica tramite l’istituto della surrogazione (art. 1916 c.c.) non nei confronti del datore di lavoro, bensì contro il terzo responsabile civile (ad esempio contro l’assicuratore per la Rc auto in caso di sinistro causato da circolazione stradale).
L’Inail, dunque, potrebbe soltanto surrogarsi nei diritti del lavoratore e agire nei confronti di un terzo responsabile, estraneo al rapporto assicurativo, che abbia colpevolmente causato l’infezione da Covid-19. Il datore di lavoro, invece, rimarrebbe soltanto esposto alle azioni risarcitorie del dipendente che, una volta indennizzato dall’Inail, potrebbe agire nei suoi confronti per il risarcimento del danno differenziale, ossia di quei pregiudizi esclusi dalla copertura assicurativa obbligatoria. Il tutto avvantaggiandosi della presunzione di non responsabilità, comunque ben espressa dal legislatore nella citata relazione illustrativa.
Si tratta ora di comprendere se questa lettura, tranciante e risolutiva, a matrice prevalentemente no fault, possa reggere anche al cospetto di quanto l’art. 42 si affretta ad affermare dicendo che gli infortuni “non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro”. 
In sostanza si tratta di capire “se gli infortuni non gravano e dunque non sono computati”, ovvero “se gli infortuni non gravano in quanto non computati” ai fini dell’oscillazione di premio. 
La neutralizzazione dell’oscillazione del premio sarebbe, nel primo caso, un effetto della presa in carico assoluta del sinistro (senza regresso) da parte dell’Inail, e nel secondo la ragione e la spiegazione di quella presa in carico, da leggersi dunque in termini più limitati e non spinta al punto tale da precludere il diritto di rivalsa.
Al riguardo può essere utile, sempre al fine di sostenere questa prima tesi, ricordare come la norma dica che gli infortuni da infezione da Covid-19 non vengono “computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante «Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019»”. Ora, così come indicato all’articolo 20, co. 2, del citato allegato al decreto ministeriale, relativo ai criteri di determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, “sono esclusi dal computo delle giornate lavorative equivalenti gli eventi lesivi per i quali, in seguito ad azione di surroga, sia stata accertata la responsabilità del terzo estraneo al rapporto di lavoro, a prescindere dagli oneri effettivamente recuperati dall’Inail. Sono incluse, invece, nel computo le giornate lavorative equivalenti relative a eventi lesivi per i quali, in seguito ad azione di regresso, sia stata accertata la responsabilità del datore di lavoro, a prescindere dagli oneri effettivamente recuperati dall’Inail”. E dunque, ragionando per sillogismo, si potrebbe affermare che, se ai fini di tale computo devono essere considerati gli eventi per i quali viene promossa l’azione di regresso, il mancato computo dei sinistri da Covid-19 dovrebbe automaticamente escludere gli stessi dalla categoria di quegli eventi per i quali l’istituto può agire direttamente nei confronti del datore di lavoro.

La tesi restrittiva: gli infortuni gravano sulla gestione assicurativa solo per quanto attiene agli impatti tariffari, con mantenimento del diritto dell’Inail alla rivalsa 
La soluzione di addossare integralmente ogni costo sulla gestione assicurativa, privilegiando i principi della mutualità solidale rispetto a quelli della responsabilità risarcitoria, è ben sostenibile, dunque, per le diverse ragioni sin qui esposte.
Ma non pare infrangibile, e sconta comunque alcuni limiti di tenuta, sia razionale che letterale.
È vero che, da un lato, si può anche condividere l’idea che, nell’emergenza, è preferibile pacificare gli animi, evitare la caccia a responsabilità individuali al cospetto di un fenomeno pandemico che l’intero globo terraqueo non è stato in grado di fronteggiare, nonostante il progressivo consolidarsi di moniti ed esperienze via via diffusesi a fronte del dilagare del virus del mondo. L’individuazione delle più appropriate misure di contenimento è stato un esercizio privo di ancoraggi stabili, e anzi rivelatosi zigzagante e cangiante nel tempo. E in questo contesto i confini di una responsabilità risarcitoria, in capo ai datori di lavoro, appaiono tanto labili da giustificare una franca deviazione verso sistemi prevalentemente no fault, posti a carico della mutualità. Almeno nei primi mesi dell’emergenza, in cui tutti, e il Governo in primis, hanno avuto difficoltà a reperire soluzioni o linee guida che fossero davvero tempestive, convincenti e scientificamente sostenibili. 
Il tutto, a fortiori, entro uno scenario di crisi economica che dovrebbe prevedere il massimo sostegno alle imprese e al lavoro: sostegno che mal si concilia con una sistematica aggressione risarcitoria, anche in via di rivalsa, di una categoria, quella dei datori, che vive e vivrà momenti di grande sofferenza.
È altrettanto vero, però, che con l’andare del tempo, certe regole di cautela sono state comunque individuate come una sorta di de minimis dei presidi di sicurezza che, pur a fronte delle incertezze pandemiche, chiunque è chiamato a rispettare. In questo senso anche le responsabilità datoriali, forse davvero da escludersi nei primi tempi dell’emergenza, hanno assunto diversa consistenza nel corso dei giorni e dei mesi, dovendo essere ragguagliate (almeno) al rispetto delle regole, dei presidi e dei protocolli resi oggetto di disposizioni normative (nei limiti delle risorse effettivamente disponibili, in tempo di emergenza).
E così, affermare sempre e comunque che il rischio da Covid-19 sia troppo alto per farlo ricadere sui datori di lavoro potrebbe portare a delle storture in tema di responsabilità non così naturalmente tollerabili da parte del nostro ordinamento. Infatti, così facendo, verrebbero esentati da un’azione di regresso, ad esempio,  anche quei datori di lavoro che abbiano violato il divieto governativo di chiusura, abbiano  colpevolmente adottato delle misure di sicurezza oggettivamente inadeguate (si pensi al caso in cui il datore di lavoro non abbia fornito ai lavoratori, pur avendone la disponibilità, adeguati dispositivi di protezione individuale) o abbiano agito in totale dissonanza con le indicazioni del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali.
Alla luce di tale osservazione di principio, valida però quanto e non più delle altre di segno contrario, si può allora leggere l’art. 42 con animo diverso, e così pure la relazione introduttiva: come se la norma avesse soltanto lo scopo di “non far pesare direttamente su ciascun datore di lavoro pubblico o privato, l’eventuale aggravio di premio assicurativo”, veicolando gli oneri degli infortuni in prima istanza sulla “gestione assicurativa”, ma senza limitare eventuali azioni di rivalsa da parte dell’istituto. 
In quest’ottica, dunque, tanto la norma quanto la relazione introduttiva potrebbero essere letti considerando la neutralizzazione dell’oscillazione del premio (in ottica di malus) non come un effetto, ma come la ragione della nuova disciplina.  
A leggerlo così, pur sulla base di una sorta di presunzione di non responsabilità, lo spettro della norma parrebbe assai più ristretto e limitato alle ricadute tariffarie, tale comunque da non precludere affatto una rivalsa che, pur difficile a fronte dei labili profili di responsabilità, sarebbe comunque ammessa.

La posizione dell’Inail e la nota del 15 maggio 2020
In questo senso sembra del resto orientarsi l’interpretazione accolta dall’Inail, il quale ha affermato nella circolare n. 13 del 3 aprile 2020 dove si legge che “in analogia alle altre tipologie di infortuni, come per esempio gli infortuni in itinere, gli effetti degli eventi in esame non entrano a far parte del bilancio infortunistico dell’azienda in termini di oscillazione in malus del tasso applicato, ma sono attribuiti secondo principi di mutualità, mediante forme di “caricamento” indiretto in sede di determinazione dei tassi medi di lavorazione”. 
Sembrerebbe così che l’istituto abbia recepito la norma senza fare alcun riferimento a ripercussioni in merito alla responsabilità del datore di lavoro. In poche parole, per l’Inail la disposizione (e il richiamo alla disciplina dei sinistri in itinere) avrebbe soltanto rilevanza ai fini del calcolo del premio in capo al datore di lavoro ai sensi degli articoli 19 e ss dell’all. 2 del decreto ministeriale del 27 febbraio 2019, ma non escluderebbe la possibilità di agire in regresso in caso di responsabilità del datore di lavoro.
A chiudere il cerchio vi sarebbe poi proprio la, invero laconica, nota dell’Inail del 15 maggio 2020, dal titolo “Il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa”.
Lo scopo dell’ente è davvero di cabotaggio minimo: quello di rassicurare  il mondo datoriale circa il fatto (a parere di chi scrive assai ovvio) che alla (di per sé opinabile) presunzione di origine lavoristica del Covid-19 non corrisponda alcuna (insostenibile) presunzione di responsabilità. Affermare il contrario sarebbe stato davvero troppo.
Piuttosto, sarebbe stato interessante comprendere come l’Inail intendesse apertis verbis il fatto che gli infortuni da Covid-19 gravino, secondo l’articolo 42, a suo carico; e quale posizione avesse assunto in ordine alla  possibilità di leggere la presunzione di origine alla stregua di un pretesto, o meglio di un mezzo, per far rientrare l’indennizzo Covid-19 entro un sistema solidaristico che prescinda dall’accertamento di responsabilità individuali (annichilendo i conseguenti diritti di regresso).
Nulla di tutto questo. L’Inail si è limitato al minimo sindacale, sostenendo che “è utile precisare che dal riconoscimento come infortunio non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro. Sono diversi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail per la tutela relativa agli infortuni sul lavoro e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro che non abbia rispettato le norme a tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.
Non una grande novità, dunque. Ma ci troviamo innanzi all’affermazione di principi di base che lasciano dunque intendere che, secondo l’Inail, l’articolo 42 non ha modificato la disciplina del diritto di regresso, che rimarrebbe comunque possibile, almeno in linea astratta. 
Si affretta poi l’istituto a dichiarare il proprio mood sulla evidente difficoltà, nell’emergenza,  di reperire in concreto (e con la medesima facilità con la quale si trattano casi ordinari  di infortunio sul lavoro) responsabilità datoriali per Covid-19. In questo senso il comunicato dell’Inail si affretta a specificare che “il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’istituto non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa penale, considerata la vigenza in tale ambito del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del pubblico ministero. E neanche in sede civile il riconoscimento della tutela infortunistica rileva ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo per aver causato l’evento dannoso. Al riguardo si deve ritenere che la molteplicità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro, oggetto di continuo aggiornamento da parte delle autorità in relazione all’andamento epidemiologico, rendano peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”.
Va ricordato al riguardo come secondo la Cassazione come la responsabilità contrattuale, ex articolo 2087 c.c., non sia di natura oggettiva, sicché il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro. La responsabilità del datore di lavoro in generale va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, ossia quando l’infortunio sia stato cagionato dalla violazione delle norme di protezione contro gli infortuni, allorché il fatto si configuri come reato procedibile d’ufficio, valutazione effettuabile incidenter tantum anche dal giudice del lavoro. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 24742/2018). 
Il fatto, però, che il nesso di causa sia dato da dall’Inail per presunto costituisce, in assenza di un controbilanciamento normativo e al di fuori di un sistema indennitario del tipo no fault, un sostanziale aggravio per la categoria datoriale.
Certo, l’emergenza non può essere non considerata così come deve esser valutata l’intrinseca difficoltà di contenere la capacità di penetrazione, aggressiva e sottotraccia, del Covid-19. Sotto ultimo tale profilo merita di essere richiamata la sentenza n. 7783 della Cassazione Penale dell’11 febbraio 2016, in cui la Suprema Corte ha ritenuto che l’infezione per le legionellosi in ospedale, ancorché prevedibile, non è imputabile per colpa al direttore generale perché non evitabile e non risultando ancora accertata l’esistenza di un sistema chimico o farmacologico in grado di eliminare completamente la presenza del batterio. Infatti, afferma la Corte, “l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare, ma anche se l’autore della stessa potesse prevedere ex ante quello specifico sviluppo causale e fosse esigibile il suo attivarsi per evitarlo. Ed occorre altresì chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo corretto) avrebbe o no prevenuto ed evitato l’evento”.
Rimane il fatto che la consapevolezza, da parte dell’Inail, della difficoltà (etica prima che giuridica) di trovare a tutti costi dei responsabili tra i datori di lavoro merita ben altre riflessioni. Vuoi tese ad una interpretazione più aperta e bilanciata dell’art. 42, vuoi ipotizzando un intervento normativo che chiuda la porta a possibili inflazioni risarcitorie, contenendo espressamente le ipotesi di responsabilità datoriale da Covid-19, sottraendo la valutazione del singolo caso da una eccessiva discrezionalità di giudizio.

Gli impatti in tema di Rco. E qualche spunto prospettico
Come detto in apertura, le ricadute del Covid-19, oltre che sulle posizioni già sofferenziali dei datori di lavoro, potrebbero essere evidentemente importanti sul versante della assicurazione Rco. 
È possibile, quando non addirittura probabile, che la pandemia possa dar luogo, unitamente all’accesso agevolato alla tutela infortunistica dell’Inail (accesso in certi casi ulteriormente agevolato dalla presunzione semplice di origine professionale) a un aumento esponenziale di sinistri, vuoi a titolo di danno differenziale o complementare, vuoi a titolo di rivalsa dell’Inail, ove l’istituto si determinasse a intraprenderla.
Allo stato, la prima delle due tesi sopra esaminate, rectius sulla esclusione della rivalsa, non sembra esser stata presa in considerazione né dalla dottrina né dall’Inail. Sussistono dunque importanti dubbi sull’evoluzione del rischio Rco da Covid-19, stante la concreta (e ben possibile) determinazione di Inail di seguire la tesi numero 2, rectius restrittiva, e così dar corso a enne azioni di rivalsa. Vi è da chiedersi, a tal fine, quali possano essere, ove non passasse la tesi dell’esonero dalla rivalsa, i presupposti di responsabilità al ricorrere dei quali la responsabilità penale del datore sarebbe implicata, ai tempi del Covid-19.
Senza pretesa di completezza, ci pare opportuno ricordare come per contrastare il diritto di rivalsa dell’Inail si dovrà, in caso di infezione dei dipendenti da coronavirus,  necessariamente considerare quali misure di sicurezza sul luogo di lavoro dovrebbero essere adottate, durante l’emergenza e nel periodo successivo, per evitare la responsabilità penale, ossia il presupposto dell’azione di regresso prevista dal Dpr 1124/1965.
Il pensiero corre inevitabilmente alla disciplina prevista dal D.Lgs n. 81/2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, il quale stabilisce un consistente numero di obblighi finalizzati a rimuovere i pericoli per la salute e l’integrità fisica dei lavoratori che prestano la loro attività in favore del datore di lavoro.
In particolare, il primo comma dell’articolo 28 del D.Lgs. n. 81/2008 impone al datore di lavoro di valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei dipendenti/collaboratori. Di qui l’esigenza che egli adotti tutte le misure di prevenzione e protezione che ritenga idonee. Al riguardo la Commissione per gli interpelli (istituita con il decreto direttoriale del 28 settembre 2011 e avente il compito di rispondere a quesiti di ordine generale sull’applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro), aveva precisato che “il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi, compresi i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti rischi generici aggravati, legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento; non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta”.
In forza di tali indicazioni, secondo la dottrina più rigorosa, il datore di lavoro sarebbe comunque obbligato a valutare il rischio da coronavirus e, dunque, ad aggiornare il precedente documento di valutazione dei rischi individuando le misure di prevenzione e protezione, atipiche o normativamente tipizzate, da adottare contro il rischio da infezione da coronavirus.
Sul punto è interessante riportare un passaggio delle Sezioni Unite del 2014 (Cass. pen. SS.UU., n. 38343), che, indagando in merito alla responsabilità penale colposa del datore di lavoro, ha affermato che “il sistema […] prevede che ciascun garante analizzi i rischi specifici connessi alla propria attività; e adotti le conseguenti, appropriate misure cautelari, avvalendosi proprio di figure istituzionali, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che del sapere necessario sono istituzionalmente portatori. Correttamente si è parlato al riguardo di autonormazione: espressione che ben esprime la necessità di un continuo autoadeguamento delle misure di sicurezza alle condizioni delle lavorazioni. L’obbligo giuridico nascente dalla attualizzata considerazione dell’accreditato sapere scientifico e tecnologico è talmente pregnante che è sicuramente destinato a prevalere su quello eventualmente derivante da disciplina legale incompleta o non aggiornata”. 
La stessa Corte di Cassazione (Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105) ha del resto avuto modo di pronunziarsi proprio sul tema del ruolo del sapere scientifico e tecnologico nel conformare l’obbligazione cautelare e nell’orientare il giudizio sulla colpa demandato al giudice. Si è rammentato che “l’evocazione di tali conoscenze, spesso condensate in qualificate linee guida, ha a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Occorre partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo”.
E ancora, il datore di lavoro sarà obbligato sempre e comunque a predisporre tutte le misure necessarie per la protezione dei lavoratori, ancorché non previste espressamente dalla normativa primaria, bensì da disposizioni regolamentari (vedi i Dpcm attuativi dei decreti legge in tema di contenimento dell’epidemia).
Si potrebbe dunque sostenere sulla base di questa impostazione ermeneutica che la responsabilità penale (ad es. per omicidio colposo del lavoratore) possa sorgere anche a seguito del mancato rispetto delle indicazioni di sicurezza e prevenzione indicate nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 dal Governo e dalle parti sociali.
Di converso, tuttavia, potrebbe argomentarsi che il rispetto di quel protocollo e delle disposizioni/raccomandazioni normative/amministrative (da leggersi anche quali linee guida operative in relazione alle quali ragguagliare adeguare i presidi di sicurezza datoriali) possa integrare il corretto adempimento degli obblighi di diligente prevenzione e contenimento dei rischi e di messa in sicurezza dei lavoratori.
Il tutto, ovviamente, calato in un contesto emergenziale che, per utilizzare le parole della Cassazione, rende oltremodo difficile anche tutto ciò che è facile (Cass pen. n. 24528/2014). 
E dunque, tornando alla gestione assicurativa dei possibili (temiamo numerosi) sinistri da Rco che saranno aperti per Covid-19, la strada difensiva, per arginare un fenomeno che rischia di mettere in crisi la stessa sostenibilità tecnica di quelle coperture, potrà muovere dalla tesi che mira a sostenere la non praticabilità del  regresso, valorizzando il fatto che far gravare l’infortunio da Covid-19 sull’Inail corrisponde all’idea di fondo di  addossarne il peso indennitario a un sistema mutualistico, e non invece al giuoco del rintraccio del responsabile all’interno di un mondo datoriale già offeso dalla crisi.
Tale principio di fondo, vale comunque, anche se si passasse alla tesi più restrittiva, al fine di enfatizzare l’ontologica difficoltà di trattare i casi di Covid-19 alla stregua di ordinari infortuni sul lavoro. E ciò sarebbe comunque utile per contenere al massimo le possibilità di attribuire effettive responsabilità risarcibili ai datori di lavoro, tanto più in assenza di regole certe e protocolli sicuri ai quali solidamente riferirsi.
La ricognizione mirata dello stato dell’arte delle conoscenze scientifiche, delle raccomandazione ricevute e dell’evolvere zigzagante della normativa emergenziale consentirà, naturalmente, di rafforzare gli argomenti attraverso i quali i datori di lavoro  potranno sostenere, almeno fin tanto che determinate esperienze non si consolidino, di aver fatto il possibile per contenere contagi che il mondo, a livello globale, ha dimostrato di non sapere ancora come arginare, se non attraverso modelli empirici di contrasto.
Sul versante del danno risarcibile, ovviamente, i temi della comorbidità potranno avere larga enfasi, anche in considerazione delle singole previsioni di copertura in ordine alla misura e caratteristica dei danni risarcibili.
Da considerarsi poi il delicato tema della denunzia del sinistro e del regime temporale di operatività di ogni singola polizza Rco. 
E da ultimo, ovviamente, sarà da comprendere se il contagio lavoristico, a tutto voler concedere, possa integrare, nel caso di diversi soggetti colpiti, l’ipotesi del sinistro in serie, giusta la previsione sovente ricompresa nelle garanzie della responsabilità civile. 
Difficile invece immaginare che il rischio pandemico possa costituire un aggravamento del rischio originariamente assunto, ai sensi dell’articolo 1898 cc.. A maggior ragione, a fronte della posizione recentemente assunta da Eiopa a proposito del sostegno che il mondo assicurativo, senza trincerarsi davanti a eccezioni tecniche eccessivamente stringenti, sarà chiamato a dare ad una società in crisi, a fronte dei nuovi rischi di Covid-19 (pur nel rispetto della generale sostenibilità dell’operazione assicurativa). Il che, ovviamente, varrà anche ai fini della costruzione o dell’adeguamento dei nuovi prodotti ai dirompenti scenari di rischio introdotti da questa crisi.   
Rimane, sullo fondo e in conclusione, la sensazione che la questione meriti di esser affrontata in modo meno parziale e con maggior respiro.
La nota dell’Inail del 15 maggio conferma che, a conti fatti, si dovrebbe davvero provare a temperare il giudizio sulle eventuali responsabilità datoriali. Se non addirittura annichilirlo facendo propendere per un sistema indennitario del tipo no fault che rinunci alla sistematica caccia al colpevole per addossare non sui singoli, ma sulla più ampia mutualità il peso della pandemia di Covid-19.
In questa direzione un certo equilibrio, mirato a non estremizzare le posizioni e lasciare spazio a un sistema di responsabilità datoriale residuale, potrebbe esser rinvenuto condizionando il diritto di regresso, oltre che alla presunzione semplice di origine professionale (laddove opportuna), a una specifica colpa grave del datore di lavoro. Colpa grave da ravvisarsi non nel semplice inadempimento di raccomandazioni o protocolli (ove esistenti), ma dalla loro macroscopica violazione, tenuto conto delle risorse strumentali ed economiche effettivamente disponibili ai tempi del contagio. 

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