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Perché il Covid non è un infortunio

Nei primi mesi della pandemia l’esigenza di proteggere economicamente i malati di Covid ha indotto il legislatore a equiparare il contagio da coronavirus a un infortunio ai fini Inail. La definizione è ricaduta sul settore assicurativo con richieste di risarcimento: si tratta però di contesti del tutto differenti - PARTE PRIMA - Analisi della questione alla luce della prassi e del principio di autonomia negoziale

Perché il Covid non è un infortunio hp_vert_img
Sempre più di frequente si registrano richieste di indennizzo azionate sulla base di polizze infortuni private a seguito del contagio da Covid-19. Tali richieste sono state sempre respinte dalle compagnie sul presupposto della impossibilità di qualificare una malattia infettiva alla stregua di un infortunio: ciò alla luce tanto di quel che nel linguaggio comune si intende per infezione (come malattia) quanto dall’elaborazione del concetto di infortunio nella tralatizia prassi assicurativa. Il pensiero al riguardo corre alle tipiche definizioni contenute nelle polizze della persona, che distinguono in maniera nettissima il rischio infortuni da quello inerente alla malattia. Definizioni che operano tale distinguo in modo talmente deciso da descrivere il rischio da malattia come “negativo fotografico”, individuabile per differenza proprio dal raffronto con la definizione tralatizia (positiva e tranciante) di infortunio “evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche obbiettivamente constatabili”. Il rischio malattia è infatti definito come “ogni alterazione clinicamente diagnosticabile dello stato di salute non dipendente da infortunio”. Si tratta di definizioni che, come detto, marcano nella prassi, senza possibilità di equivoci, una differenza non soggetta a dubbi interpretativi. 
E non si tratta di una prassi qualsiasi, bensì di una prassi valorizzata in modo para normativo dalla più autorevole e pacifica giurisprudenza di legittimità, che ha sostenuto a chiare lettere (SS.UU. n. 5119 del 2002) come l’assicurazione privata contro gli infortuni sia un contratto socialmente tipico, i cui contenuti sostanziali trovano loro forza strutturale proprio nei modelli di polizza consolidatisi nella prassi. 

UNA RISPOSTA ALL’EMERGENZA
Pare dunque lecito affermare che mai prima d’ora una malattia infettiva sarebbe stata indennizzata come infortunio e viceversa. Perché dunque oggi si pone un dubbio che riguarda la possibilità di tradire il chiaro senso letterale e razionale di una distinzione, quella tra polizze infortuni e malattia, che trova espressa affermazione nella legge e, precisamente, nell’articolo 2 comma 2 e comma 3 del Codice delle assicurazioni private? 
La risposta risiede sostanzialmente in una suggestione stimolata da una normativa eccezionale di matrice emergenziale (art. 42 D.L. 18/2020), la cui lettura talvolta strumentale ha dato luogo a numerosi equivoci e a qualche tentativo di applicazione analogica del tutto eccentrica rispetto alla ratio della disposizione.
La norma, emanata nel contesto dell’emergenza pandemica allo scopo di adiuvare lavoratori e imprese, ha equiparato il Covid a un infortunio sul lavoro indennizzabile; essa, tuttavia, resta confinata nel settore normativo delle assicurazioni sociali (Inail) e non può estendersi al comparto delle assicurazioni private, neppure quale norma di interpretazione autentica.
Il diverso tentativo di estendere tale portata ha trovato terreno fertile negli slanci protettivi che in tempo di Covid si sono susseguiti per provare a reperire strade utili a garantire un qualche sostegno alle vittime della pandemia. Ma pur condividendo il nobile scopo, un tale tentativo non avrebbe comunque dovuto / potuto spingersi tanto in là da pretendere di forzare il paradigma di copertura di prodotti assicurativi realizzati e stipulati per rischi totalmente diversi e in tempi in cui di Covid non era dato discorrere.

UN PROBLEMA CHE “NON ESISTE”
Al netto, infatti, del dibattito medico legale e delle fonti linguistiche, la questione in verità dev’essere analizzata dall’angolo di un’indagine ricognitiva. Sul punto, lucido è stato l’intervento della miglior dottrina, che ha saputo evidenziare come “il problema delle interferenze tra l’art. 42 d.l. 18/20 e l’assicurazione privata contro gli infortuni è un problema che non esiste e non potrà mai esistere. […] Una volta che la polizza infortuni definisse l’infortunio come l’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni corporali, ne resta esclusa la malattia infettiva, perché manca l’elemento della violenza e quello della lesione: e nulla rileva che il legislatore a tutt’altri fini abbia inscritto le conseguenze del contagio tra le garanzie apprestate dall’Inail” (M. Rossetti, L’assicurazione e l’emergenza “Covid”, in www.rivistaassicurazioni.com).
Il tema attiene d’altronde al rispetto del principio di autonomia negoziale di cui all’articolo 1322 C.c.. Le parti di un contratto sono sovrane nel definirne l’oggetto e i patti, con la conseguenza che, adottata per contratto una data definizione di “infortunio”, essa sarà insensibile alle definizioni che di tale lemma il legislatore dovesse dare per altri istituti e ad altri fini. Pertanto, una volta che la polizza infortuni definisce l’infortunio nei termini già precisati, ne resta inevitabilmente esclusa la malattia infettiva, perché manca l’elemento della “violenza” e quello della “lesione”, a nulla rilevando che il legislatore, per tutt’altra finalità, abbia incluso le conseguenze del contagio da Covid tra le garanzie apprestate dall’Inail. E a nulla rilevando il fatto che, secondo una parte della dottrina medico legale (come meglio vedremo in seguito), le infezioni virali (tra cui il Covid) integrerebbero quegli elementi di violenza, esternalità e fortuità che caratterizzano il rischio infortuni. 

IL TENTATIVO DI ESTENSIONE ALL’AMBITO ASSICURATIVO
Tanto basterebbe per riportare i termini del confronto là dove dovrebbero stare, tenendo conto dell’applicazione della regola interpretativa di cui all’articolo 1368 C.c., in base alla quale non può che concludersi che “nei contratti di assicurazione della persona la malattia è una cosa, e l’infortunio un’altra; ed una infezione virale rientra nella prima categoria” (M. Rossetti, cit.). Nell’uso comune, del resto, chi abbia contratto una forma infettiva grave si rivolge al reparto “malattie infettive” di un ospedale all’uopo attrezzato e non certo a nosocomi specializzati in traumatologia o infortunistica (tanto meno “infettiva”).
L’autonomia privata potrebbe poi ammettere deroghe e inclusioni espresse di fattispecie eccentriche rispetto alle tipiche ipotesi di infortunio. Ma proprio perché eccentriche, e limitate, quelle eventuali deroghe dimostrano come, al di fuori del loro perimetro, la polizza continui a mantenere il proprio fisiologico ambito di copertura. 
Senonché, sull’onda dei complessi transiti emergenziali, vi è chi, incurante di tali lineari rilievi, ha ritenuto comunque di cavalcare l’onda (absit iniuria verbis) e provare a forzare l’ambito di tutela naturalmente offerto dalla propria polizza privata. Tale tentativo non dovrebbe però trovare accoglimento, proprio perché fondato su una inaccettabile mistificazione del significato sostanziale degli impegni di copertura assunti in una polizza infortuni, a maggior ragione laddove stipulata in tempi in cui di Covid e di pandemia nessuno neppure parlava (e dunque quotata con un premio che certamente non avrebbe neppur potuto prendere in considerazione una così impropria estensione del proprio normale perimetro di garanzia). 

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