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Il lavoro e la ricerca di felicità

L'editoriale di Maria Rosa Alaggio, dal numero di aprile 2023 di Insurance Review

Il lavoro e la ricerca di felicità hp_vert_img
Quale posizione potrà mai ricoprire tra le nostre priorità il tema del benessere e della felicità in un mondo funestato da guerre, calamità naturali, pandemie, crisi economica e disuguaglianze sociali? 
Eppure proprio la ricerca della felicità rappresenta il motore su cui si muove l’umanità, una misura per il progresso sociale e un obiettivo della politica, un indice per rappresentare la crescita di un Paese in report e classifiche più o meno istituzionali. 
I metodi per valutare il livello di felicità della popolazione si sono evoluti nel tempo, passando dalle più tradizionali interviste a target di cittadini fino al monitoraggio dei linguaggi utilizzati sui siti web oppure sui social media. Un’opportunità resa concreta grazie al potere della tecnologia, dell’intelligenza artificiale e del machine learning, tutti strumenti che vengono adottati per analizzare la ricorrenza delle parole nell’immensa mole di contenuti circolanti. 
Ma, senza disturbare i più evoluti algoritmi in circolazione, è noto che, soprattutto nel mondo occidentale, il termine felicità coincide spesso con il soddisfacimento dei propri obiettivi professionali. 
Almeno così è stato fino al diffondersi del fenomeno che oggi porta il nome di Great Resignation, una tendenza circostanziata da cifre e numeri che testimoniano la crescita delle dimissioni dal lavoro a livello internazionale, negli Stati Uniti, in Europa e anche nel nostro Paese, tradizionalmente affezionato al “posto fisso”. A spingere alle dimissioni volontarie i lavoratori appartenenti a tutte le generazioni, baby boomer, millennial e generazione Z, sarebbero due motivazioni principali: il maggiore dinamismo nel mondo del lavoro e il desiderio di un diverso equilibrio fra vita e lavoro. Di fatto, la crescente tendenza a “ricercare altro” delinea uno stato di malessere diffuso e un preoccupante fenomeno sociale.
Certo, il termine “travailler” da sempre rimanda alla concezione del lavoro come un peso, come “travaglio” appunto, e al quesito su come riuscire a essere felici pur lavorando. 
Oggi il benessere dei dipendenti è al centro delle strategie di inclusione di molte aziende, compagnie di assicurazione comprese, che in alcuni casi hanno introdotto la figura del chief happiness officer con il compito di sviluppare iniziative in grado di coinvolgere le risorse umane in una quotidianità più propositiva, di contribuire ad aumentare la produttività, trattenere i talenti e innalzare il senso di appartenenza. 
Ma non è tutto. Anche l’acquisizione di tecniche che aiutino ad esercitarsi per generare condizioni di benessere nel mondo del lavoro e nella sfera privata rientra nelle cosiddette life-skills, quella serie di competenze indispensabili per arricchire il proprio bagaglio professionale e personale che si manifesta nella capacità di gestire lo stress, relazionarsi con i colleghi o gli interlocutori esterni. 
Il che conduce a una riflessione tutta da rispolverare e ricominciare ad apprezzare: al di là della remunerazione o delle ambizioni più o meno realistiche, per ogni individuo è necessario percepire di stare perseguendo una meta significativa, di essere sulla strada giusta e di procedere nella giusta direzione, anche se questo implica faticare e a volte soffrire. Uno stato d’animo che riporta al vecchio concetto, per nulla tecnologico, di Confucio: “Scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in tutta la tua vita”. Un lusso a cui ambire anche nei momenti più bui che la vita ci dona. 

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