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Cercasi figura professionale per la gestione dei rischi

Solo una minima parte delle medie imprese italiane ricorre al risk manager. Ma chi investe registra performance economiche migliori: in media del 27%

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Il risk manager dov’è? Solo lo 0,2% delle imprese italiane ricorre a questa figura specifica: all’interno delle medie aziende, infatti, manca una professionalità di raccordo sui diversi profili di rischio. Ma nel prossimo triennio un’azienda su quattro aumenterà le risorse dedicate al risk management. Le medie imprese italiane, con un fatturato di circa 65 milioni di euro, in cui la quota dell’export vale il 45%, che investono in questo ambito realizzano una redditività industriale del 20- 30% superiore rispetto a quelle che trascurano il rischio. È questa la carta d’identità tratteggiata nell’analisi condotta da Cineas, in collaborazione con Mediobanca e con il contributo di UnipolSai. 

All’indagine, nell’ambito del terzo Osservatorio sulla diffusione del risk management nelle medie imprese, presentata al Politecnico di Milano, hanno partecipato 257 aziende appartenenti ai settori: alimentare, beni di consumo, chimico-farmaceutico, carta e stampa, meccanico e metallurgico. In generale, la percezione e la sensibilità del rischio è in aumento secondo Adolfo Bertani, presidente di Cineas. “Ben il 74% del campione analizzato – sottolinea il numero uno del consorzio – ritiene che il risk management sia un’opportunità, mentre in passato era un costo che gravava sul bilancio”. C’è però un problema di fondo: manca un approccio sistemico e globale della gestione dei rischi. “Solo poche aziende hanno la figura strutturata di risk manager – evidenzia Bertani –. D’altra parte c’è la consapevolezza che bisogna investire (67,5% delle imprese) nella formazione dei dipendenti sulle tematiche del rischio. Complessivamente, per le aziende che gestiscono il rischio le performance economiche migliorano mediamente del 27%”. Inoltre, la novità dell’ultimo osservatorio fotografa uno scenario controverso. Rispetto alle precedenti indagini, il rischio finanziario, che era il più percepito, è stato sostituito da altri: rischi operativi, legali e informatici. Accanto a questo contesto si inseriscono poi alcune insidie strategiche. Si è registrata la tendenza a trascurare, o quanto meno ritenere marginali, i rischi reputazionali e quelli connessi alla perdita di competenza professionale. “In prospettiva – ammonisce Bertani – sono pericoli che le imprese medie devono attenzionare. Anche perché oggi siamo di fronte a una transizione nella cultura del rischio. Per cui bisogna investire nella gestione dei rischi e far crescere nuove competenze in questa direzione”. 

Gabriele Barbaresco, direttore ufficio studi di Mediobanca, ha presentato i dati dell’analisi, rimarcando come la maggiore attenzione sia dedicata alle fasi produttive e ai rapporti con i clienti e fornitori. Mentre viene riservata minore attenzione al fatto che ci sia un’adeguata percezione e protezione dei rischi da danno reputazionale e da disaster recovery, ambiti questi percepiti come vitali in altre aree avanzate dell’Europa, che risultano però collegati e strategici per il futuro aziendale. “Questo tipo di eventi – avverte Barbaresco – ha una probabilità di accadimento remota, ma un’incidenza dei danni pressoché irreversibile”. Per un segnale potenzialmente negativo, sotto il profilo strategico, si rileva però anche un elemento positivo a livello di scenario macro economico: in controtendenza rispetto al recente passato, il paventato credit crunch risulta allentato e il legame delle medie imprese con il settore bancario va stringendosi con sempre maggiore frequenza. In questo senso, impresa e banca non sono più cane e gatto. Anzi “ci troviamo di fronte a rischi, ma anche a opportunità”, ha rilevato Paolo Garonna, segretario generale della Federazione delle banche, delle assicurazioni e della finanza (Febaf): “il nostro Paese, nel rapporto tra finanza e industria, si può considerare un cantiere aperto”. Infine, dall’analisi per area geografica, dalla survey risalta il gap del mezzogiorno. Nel complesso, le attività di prevenzione e gestione dei rischi al Sud sono sei volte meno efficaci rispetto al Nord Est. In sostanza, le aziende meridionali percepiscono il rischio ma gli strumenti che hanno per fronteggiarlo sono meno efficaci.

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