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L’orientamento della Cassazione sul danno biologico intermittente

Il risarcimento riconosciuto per lesioni illecite subite da terzi può essere ridotto proporzionalmente, nel caso in cui la sentenza avvenga dopo la morte del danneggiato, e per cause non collegabili all’illecito

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La prima sentenza dell’anno nuovo che annotiamo come più interessante, fra le molte già pubblicate e approdate sulle nostre scrivanie, è quella depositata lo scorso 18 gennaio (Cassazione Civile, sez. III, n. 679, Pres., rel. Ambrosio) perché ci rievoca alcuni canoni e regole del nostro sistema di risarcimento del danno alla persona, ai quali è sempre bene attingere e mai smettere di rammentare.

La vicenda è una tipica situazione che si verifica in un numero importante e costante di controversie nelle quali il giudice sia chiamato a riconoscere il compenso risarcitorio a una vittima di illecito di terzi che abbia determinato un danno alla persona, con conseguenze invalidanti permanenti (danno biologico).

È la situazione in cui la vittima dell’illecito, che ha subito le conseguenze pregiudizievoli della lesione provocata dall’azione illecita, sopraggiunga a morte prima che il giudice abbia liquidato il danno in sentenza, e per cause diverse da quelle connesse all’illecito stesso. In buona sostanza, è l’ipotesi in cui il danneggiato sopravviva alla lesione, diciamo per un periodo di due anni, subendone quindi le conseguenze menomanti, ma poi deceda per causa diversa dal sinistro (morte naturale, malattia, eccetera) in nessun modo a esso ricollegabile.

Il problema che si pone all’interprete e al giudice è quello di determinare una somma, da riconoscere a titolo risarcitorio, che sia parametrata a un lasso di tempo certo di permanenza in vita della vittima, e non a un lasso di presumibile durata futura della vita stessa.

Le tabelle di Milano, che sono come sappiamo il sistema risarcitorio nazionale adottato pressoché da ogni tribunale dello Stato, si basano su indici di calcolo riferiti alla presumibile permanenza in vita di una persona: tanti più anni si presume che la vittima sopravviva con la lesione, tanto più alta sarà la somma riconosciuta. Questa è la ragione per la quale, a parità di lesione, le tabelle riconoscono a un soggetto giovane molto più che a uno anziano.  

La Tabella di Milano si consolida come parametro 

Il punto quindi è il quantum da risarcire nel momento in cui la persona lesa sopravviva per un lasso di tempo limitato e certo, nel senso se la somma riconosciuta dalla tabella vada riconosciuta comunque per intero, ovvero se la stessa debba essere proporzionata al periodo effettivo di vita del danneggiato.  

Su questa questione la giurisprudenza di merito è assai dibattuta e contraddittori sono gli orientamenti registrati.

Più solida nei suoi convincimenti è, invece, la suprema Corte di Cassazione che, in materia di risarcimento del danno biologico in favore del danneggiato deceduto in corso di processo, richiede l’adozione di parametri chiari e congrui al lasso di tempo di effettivo apprezzamento della lesione. 

Questa è appunto la chiara massima di questa recentissima sentenza oggi segnalata: “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale da fatto illecito, qualora, al momento della liquidazione del danno biologico, la persona offesa sia deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, alla valutazione probabilistica connessa con l’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato va sostituita quella del concreto pregiudizio effettivamente prodottosi. Infatti, quando la durata della vita futura cessa di essere un valore ancorato alla probabilità statica, e diventa un dato noto per essere il danneggiato deceduto per circostanze autonome dall’evento lesivo, la liquidazione del danno biologico, essendo lo stesso costituito dalle ripercussioni negative all’integrità-psicofisica, va parametrata alla durata effettiva della stessa”.  Il criterio empirico per determinare tale ammontare consiste in una operazione per equazione tra la somma che sarebbe spettata per la durata prevista (in statistica) della vita media dell’individuo e il lasso di tempo che lo stesso abbia invece effettivamente vissuto: se il valore tabellare porta a 100 per dieci anni di vita presunta e la vittima sopravviva solo due anni alla lesione, la somma da riconoscere sarà pari a 2/10 del valore tabellare, e non all’intera somma. 

Questo principio qui rammentato dalla Cassazione ci permette così di ricordare che i criteri tabellari in uso presso i tribunali dello Stato non sono mai rigidi, ma possono ben essere adattati alle dimensioni concrete del caso, sempre sotto il controllo e con il prudente apprezzamento del magistrato.


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