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La “Claims Made”: impianto lecito perché condiviso tra le parti

Dopo anni dall’introduzione nel sistema assicurativo italiano, non mancano le sentenze sulla validità e presunta vessatorietà della clausola “a richiesta danni avvenuta”

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Una sentenza della Corte di Appello di Milano ci riporta alla trattazione della difficile materia della validità ed efficacia della clausola assicurativa così detta “claims made” nelle polizze della Rc Professionale. È noto il dibattito in dottrina ed in giurisprudenza circa la validità di una clausola che imposta il contratto in deroga al testo dell’art. 1917 Cc (sinistro in garanzia, da intendersi non quello legato al fatto-errore generatore del danno, ma alla prima richiesta danni pervenuta al responsabile assicurato).

Il contrasto, anche forte, in dottrina ed in giurisprudenza verte tanto sulla validità generale di una tale clausola (alcune decisioni nel tempo hanno fatto riferimento ad una illiceità tout court della clausola), quanto sulla assunta vessatorietà di una condizione delimitativa del rischio assicurato (con obbligo di doppia sottoscrizione da parte dell’assicurato ai sensi  dell’art. 1341 Cc).
Ebbene, la sentenza della Corte di Appello di Milano (n. 131 del 13 gennaio 2015) si segnala per una corretta interpretazione ammissiva della clausola “claims made” in ragione non solo degli aspetti legali e formali (libera derogabilità delle parti all’impianto di cui all’art. 1917 Cc), ma anche della assenza di una vessatorietà della clausola nelle ipotesi in cui palesemente l’accordo delle parti lasci intendere per la libera e condivisa scelta dell’ opzione della diversa imputazione del rischio, riferito dunque non al fatto ma alla denuncia del danneggiato.

Nessun dubbio se il contratto è sintonico

In buona sostanza, sostiene la Corte, la clausola “claims made” non solo è valida e legittima, ma anche vincolante tra le parti a prescindere dalla firma specifica della relativa condizione, quando l’intero contesto contrattuale sia sintonico con la scelta delle parti di adottare una impostazione riferibile a tale regolazione del momento assicurato.
Rilevano i giudici del collegio meneghino che “nelle definizioni di polizza si legge, infatti, che va inteso: come rischio "la probabilità che si verifichi il sinistro" e come sinistro "il ricevimento di formale richiesta di risarcimento da chiunque avanzata nonché di azione di rivalsa esperita da qualunque Ente e /o di inchiesta giudiziaria e /o amministrativa".

Gli elementi sopra indicati valgono dunque a definire la polizza in oggetto come contratto di assicurazione impostato e connotato integralmente dal regime "claims made" o "a richiesta fatta", in cui oggetto dell'assicurazione è proprio la richiesta risarcitoria avanzata dal terzo garantito, determinata da un evento dannoso ascrivibile a responsabilità  dell'assicurato.
“Trattasi, dunque, di contratto assicurativo in cui l'obbligazione di garanzia non sorge con il fatto generatore di responsabilità, ma con la richiesta risarcitoria del terzo”.

La clausola contrattuale che delimita quindi il tempo della copertura al momento in cui l’assicurato riceva la prima richiesta danni, non può nemmeno essere intesa come clausola vessatoria, perché la stessa richiama l’intero impianto della polizza tutto delineato nel contesto volto ad intendere la copertura legata all’insorgere della controversia e non al momento della commissione dell’illecito.

Accordo lecito se è condivisa la deroga dal 1917Cc 


È vero che la polizza "a richiesta fatta", diverge dallo schema generale del contratto assicurativo della responsabilità civile, così come definito all'art. 1917, comma l, Cc in cui il sinistro coperto dalla garanzia assicurativa è il "fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione" e di cui l'assicurato deve rispondere civilmente.
Tuttavia, “la polizza in oggetto costituisce un'ipotesi lecita di contratto assicurativo, rispondente agli interessi dell'assicurato, che ha voluto ed accettato l'intera struttura contrattuale così come predisposta nella polizza medesima secondo il rischio ivi definito”.
Per questa ragione, verificato che le parti hanno esattamente voluto derogare all’impianto di cui all’art. 1917 Cc, “la clausola sul punto è astrattamente tutt'altro che vessatoria, potendosi al proposito notare che pacificamente l’ente assicurato non intese richiedere una copertura aggiuntiva”.

Il motivo per il quale la sentenza in evidenza è particolarmente rilevante è che il ragionamento condivisibile dei giudici del gravame (a differenza di quello del primo estensore che aveva ritenuto la clausola nulla perché vessatoria e non approvata espressamente per iscritto) sta nell’aver voluto correttamente analizzare le reali volontà delle parti nella predisposizione di un polizza “a prima richiesta” e non verso una copertura legata alla generazione del danno.

La volontà delle parti, se liberamente acquisita in sede negoziale ed inequivocabilmente indirizzata verso una condizione contrattuale voluta (che nel nostro caso è delimitata nell’oggetto di polizza), non può mai costituire una condizione imposta dal soggetto imprenditoriale e quindi soggetta ad esplicita manifestazione di consenso perché peggiorativa per la parte aderente al modulo contrattuale.
Ancora una volta, la sentenza ci porta alla memoria la considerazione che la clausola “claims made”, se ben calibrata sulla portata effettiva del rischio in garanzia, è tutt’altro che penalizzante per la posizione del professionista assicurato ed è anzi strumento di maggior tutela, cosa che ne determina sia la legittimità che la non vessatorietà se voluta e condivisa in sede di stipula del contratto.



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