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La salute come bene collettivo

Dalla pandemia è scaturito un nuovo concetto di salute e di autodeterminazione, che attribuisce una valenza maggiore al bene comune. In questa nuova ottica, è possibile ragionare diversamente anche sul tema del risarcimento del danno non patrimoniale

La salute come bene collettivo hp_vert_img
La pandemia dovrebbe produrre una rivoluzione copernicana nel concetto di salute, di autodeterminazione e di risarcimento del danno non patrimoniale.
Partiamo dalla definizione di salute. Secondo gli artt. 1 e 2 della legge che ha istituito il servizio sanitario nazionale, la salute è una condizione di “benessere psicofisico della persona” che lo Stato deve tutelare prevenendo e curando gli stati patologici. Secondo molti autori, questa definizione si ricava anche dalla Costituzione (art. 32) e dalle norme sovranazionali come il Preambolo dello Statuto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Va detto, però, che negli ultimi anni il concetto di salute si è ampliato per effetto di un orientamento culturale dominante, secondo il quale questo termine include anche la serenità interiore e perfino la felicità.
Ci troviamo di fronte, dunque, a un concetto dove trionfa l’individualismo più sfrenato che caratterizza la nostra società. Non condivido questa nozione così ampia di salute per due ragioni. Anzitutto perché la giurisprudenza non ha mai affermato che per essere in salute si debba essere sereni e felici. Altrimenti bisognerebbe constatare che il 95% della popolazione mondiale è malata.
In secondo luogo perché un concetto così esteso di salute si scontra irreparabilmente con la seconda parte dell’art. 32 della Costituzione, in forza del quale il diritto alla salute è anche un interesse fondamentale della collettività. E che cosa s’intende con questa espressione? Significa bilanciare il diritto fondamentale alla salute come bene individuale con l’esigenza di tutelare la salute nella sua dimensione sociale, ovvero con la necessità che le cure siano assicurate a tutti. 
La pandemia ci ha insegnato (o dovrebbe averci insegnato) l’importanza di un servizio sanitario nazionale che offre gratuitamente a tutti il diritto alle cure senza escludere nessuno. E se il servizio sanitario è carente perché lo Stato ha tagliato i fondi per alimentarlo, come è accaduto nel nostro Paese, le conseguenze ricadono su tutti noi e, dunque, sul diritto alla salute di ciascuno, che diventa così meno assoluto e più fragile.
Ecco la grande lezione della tragedia che stiamo vivendo. Ci siamo accorti che, per essere in salute, è necessario poter contare su un servizio sanitario che abbia risorse per essere il più possibile efficiente verso la collettività.

Vaccini: autodeterminazione o obbligo?
Un’altra lezione che dovremmo aver imparato da questa pandemia è legata al tema dell’autodeterminazione individuale sulla vaccinazione. Come è noto, il nostro Paese ha optato per la tecnica della raccomandazione e della responsabilità individuale, anziché quella dell’obbligo. È senza dubbio una scelta che esprime maggiore attenzione al profilo soggettivo del diritto alla salute. Ma nel dibattito che è in corso, tuttavia, di fronte ad alcuni casi (pochi per fortuna) di medici e infermieri che non hanno voluto vaccinarsi, alcune voci si sono levate per chiedere che lo Stato obblighi alcune categorie (personale sanitario, insegnanti, ecc.) a vaccinarsi per tutelare la salute nella sua dimensione collettiva, nella prospettiva delineata dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione.
L’obbligo di vaccinarsi per determinate categorie, insomma, si renderebbe indispensabile per evitare nuovi contagi e raggiungere la massima copertura vaccinale tutelando così la salute pubblica. Certo, mi rendo conto che in questo modo, si comprime la libertà individuale della persona e il diritto all’autodeterminazione, ma l’esigenza di tutelare la salute pubblica potrebbe/dovrebbe indurre lo Stato ad imporre per legge ad alcune categorie l’obbligo di vaccinarsi.

Salute e una diversa logica risarcitoria
Il mutato concetto di salute dovrebbe portare poi il legislatore, la giurisprudenza e la dottrina a elaborare una diversa logica risarcitoria che non sia ispirata solo alla tutela del diritto individuale di ciascuno, ma anche alla tutela del benessere sociale, della ricerca scientifica e, dunque, del bene salute nella sua dimensione collettiva.
Detto altrimenti, il principio di solidarietà sociale affermato dall’articolo 2 della Costituzione dovrebbe essere imposto non soltanto ai danneggianti ma anche ai danneggiati.
Alcune sentenze della Corte di Cassazione hanno già affermato che la solidarietà sociale non deve riguardare solo i danneggianti. Basti pensare, ad esempio, alla sentenza n. 26972/2008 in forza della quale, affinché la lesione all’integrità psico-fisica faccia sorgere il diritto al risarcimento del danno alla salute, occorre che essa sia grave, ovvero che ecceda la soglia della normale tollerabilità che una persona di comune sensibilità possiede. Il ragionamento è semplice. Nella vita all’interno di una comunità, il dovere di solidarietà impone a tutti di tollerare le interferenze altrui quando queste non superino la normale tollerabilità.
E, dunque, non si potrebbe, ad esempio, pretendere un risarcimento del danno alla salute per lesioni minime all’integrità psico-fisica come, invece, purtroppo accade ancora oggi.
Ma facciamo un passo avanti e poniamoci due interrogativi. Se la salute è anche interesse fondamentale della collettività, è conforme al dovere di solidarietà sociale che le somme liquidate nelle sentenze a titolo di danno non patrimoniale siano destinate per intero ai danneggiati? Non sarebbe più corretto che una quota di queste somme (anche minima) sia destinata al servizio sanitario nazionale? 
Sicuramente sarebbe coerente con il principio costituzionale di solidarietà sociale destinare una parte del danno liquidato nelle sentenze in materia di responsabilità medica al servizio pubblico, ma porre questo problema prima della pandemia sarebbe stato oggetto di critiche feroci da parte di tutti. Ora, invece, penso che sia giunto il momento di lanciare questa proposta.
Mi rendo conto che una soluzione di questo tipo necessiterebbe di un intervento del legislatore per costituire un patrimonio, per ripartire le somme tra varie strutture sanitarie pubbliche, per attribuire al giudice il potere di fissare una quota da destinare al servizio sanitario nazionale. Ma forse, già sin d’ora, qualche giudice, applicando il principio costituzionale di solidarietà e avendo come riferimento l’art. 2058 c.c. sul risarcimento in natura, potrebbe dirottare una quota del danno alla salute liquidato nelle sentenze da responsabilità medica a una struttura sanitaria pubblica.
Sono consapevole che si tratta di una prospettiva un po’ romantica e utopistica, ma è necessario, in questi tempi nei quali le nostre coscienze sono un po’ assopite dalla paura del contagio e dalla tecnologia che governa le nostre vite, lanciare una provocazione, un’idea per cercare di fare delle riflessioni più profonde sul concetto di salute, di autodeterminazione e di risarcimento del danno affinché siano valutati in termini meno egoistici ma più solidali. Un diritto, insomma, che guardi alla salute (ma non solo) come un interesse collettivo.

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