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Contratti semplici, chiari ma anche "giusti"

Mappare correttamente il processo di stipula, in cui il cliente sottoscrive clausole non equivocabili, è una delle responsabilità principali dell’assicuratore moderno. Tutti i risvolti, i rischi e gli impegni per le compagnie e gli intermediari spiegati da Maurizio Hazan, managing partner dello studio legale Taurini-Hazan

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Il 2019 è, come noto, l’anno dei contratti semplici e chiari. Entro fine anno le imprese assicurative saranno tenute a completare la revisione dei testi dei propri prodotti, onde fluidificarne il linguaggio e renderne più comprensibile la lettura ai clienti, evitando l’utilizzo di formule lessicali eccessivamente tecniche, eliminando ridondanze e avendo cura di coordinare le condizioni contrattuali in modo armonico e tale da mettere in evidenza le clausole più gravose per il consumatore. In realtà tale obbligo, sancito, tra l’altro, dalla lettera al mercato di Ivass del 14 marzo 2018, non costituisce affatto una novità. Tutto al contrario, sin dalla data di entrata in vigore del Codice delle assicurazioni il legislatore aveva espresso il principio del rispetto della chiarezza, della trasparenza e della esaustività nella redazione delle condizioni di contratto. Mi riferisco all’articolo 166 del Cap, a mente del quale “il contratto e ogni altro documento consegnato dall'impresa al contraente va redatto in modo chiaro ed esauriente” mentre le clausole che indicano decadenze, nullità o limitazione delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell'assicurato devono esser “riportate mediante caratteri di particolare evidenza”. 
Sennonché, quella norma, apparentemente priva di specifica sanzione, è stata, nei primi quattordici anni di applicazione del Codice, sistematicamente ignorata, quasi si trattasse di una stilistica dichiarazione di principio immeritevole di seria attenzione. Non è mistero che buona parte dei contratti assicurativi siano redatti, ancora oggi, facendo leva su tecnicismi talvolta incomprensibili anche a operatori del settore. 

LA SFIDA DELLA FIDUCIA 
Rimane il fatto che la resistenza a cambiar passo e a uscire dalle logiche difensive tipiche di un vecchio modo di far assicurazione pare giunta, lo si voglia o no, al capolinea. La vocazione sociale dell’assicurazione del terzo millennio, la sua rinnovata capacità espansiva (a protezione di interessi diffusi in ottica di welfare mix), deve vincere la sfida della fiducia e conseguentemente superare il pregiudizio dell’uomo della strada, da lungo tempo incline a guardare con sospetto il mondo delle imprese assicurative: di qui la necessità, vitale, di mutare l’approccio comunicativo, provando ad avvicinare una clientela sin qui, sovente, allontanata proprio dalle difficoltà di lettura e comprensione dei servizi offerti in polizza.  
D’altra parte, impegno primario dei distributori di prodotti assicurativi è quello di mantenere le promesse di copertura senza provare a disattenderle, tantomeno facendo leva su artifizi interpretativi alimentati dalla poca chiarezza dei testi di polizza. Viviamo un momento storico, stigmatizzato dai principi di fondo che sostengono la Idd, in cui le asimmetrie informative che caratterizzano il rapporto assicurativo paiono ribaltate rispetto all’originaria impostazione del Codice civile: non è più (tanto) il cliente a esser custode di informazioni che l’impresa non conosce (informazioni da rivelare in sede precontrattuale ai sensi degli articoli 1892 e successivi del Codice civile) ma è soprattutto l’impresa a dover guidare passo dopo passo il proprio cliente, il quale nulla sa di tecnica assicurativa e neppure è in grado di Capire davvero quali siano le informazioni il cui contenuto va rivelato ai fini di una corretta profilatura del proprio rischio. Di più, l’assicuratore moderno deve promuovere la conoscenza e la prevenzione del rischio, intercettando le effettive esigenze di protezione del proprio cliente e fornendogli coperture davvero adeguate alla bisogna.

LA LINGUA COME VALORE COMPETITIVO 
Tutto questo presuppone e postula, come detto, un modo nuovo di comunicare. Tanto nella fase precontrattuale, in corso di trattativa, quanto nella stesura del contratto. Contratto il cui contenuto redazionale deve rispettare le menzionate regole di chiarezza espositiva (il che tradisce un sostanziale obbligo di forma scritta che mette in discussione, di fatto, il principio della libera consensualità affermato dall’art. 1888 c.c.). D’altra parte i diversi modi con cui un testo può esser semplificato potrebbero costituire un interessante momento di confronto concorrenziale tra le imprese, dal momento che la scelta dell’approccio linguistico o stilistico da adottarsi in concreto potrebbe connotare in termini identitari l’operatività di ciascun player.  
Ora, al di là degli approcci un poco accademici al tema, la questione relativa alla semplificazione dei contratti d alla chiarezza del lessico di polizza diventa oggi di drammatica attualità, a fronte della convergente determinazione (del legislatore, dell’autorità di vigilanza e soprattutto della giurisprudenza di legittimità) a intervenire e sanzionare (civilisticamente e amministrativamente) i testi di contratto che non riflettano una corretta applicazione dei principi sopra enunciati. 
Di ciò non ci sembra vi sia piena consapevolezza, anche se è da apprezzare la determinazione con cui tanto Ivass quanto Ania stanno sollecitando il mercato ad affrontare la questione con decisa proattività, non limitandosi ad una debole revisione cosmetica dei vecchi Capitolati di polizza. Del resto, non adeguarsi a quanto predicato dal legislatore non significa soltanto la perdita di utili opportunità ma costituisce fonte di rischi tutt’altro che trascurabili, non solo di carattere sanzionatorio ma, soprattutto, in termini di tenuta e opponibilità al cliente dell’impianto di polizza, per come unilateralmente strutturato dalla compagnia. 

CLAUSOLE LIMITATIVE E CARATTERI POCO CHIARI 
La più recente giurisprudenza di Cassazione ci fornisce il destro per alzare il velo, e scoprirli questi nuovi rischi. È ancora una volta la terza sezione della Suprema Corte a compiere un deciso balzo in avanti, proprio con riguardo alle conseguenze della violazione dell’art. 166 del Codice delle assicurazioni. Mi riferisco alla sentenza 15598 dell’11 giugno 2019, in cui si afferma la potenziale inefficacia di una clausola di limitazione della garanzia di una polizza di Rc (stipulata da un’impresa edile) che, non rimarcata con caratteri di particolare evidenza, escludeva la copertura per danni derivanti da acqua piovana e/o altri eventi atmosferici (ove, ovviamente, comunque correlati a una previa responsabilità dell’impresa assicurata. 
Al riguardo la Cassazione censura i giudici del merito, nella parte in cui gli stessi hanno ritenuto valida ed efficace la pattuizione, in quanto non rientrante nell’elenco tassativo delle clausole vessatorie di cui all’art. 1341 comma 2 c.c.: a dire della Suprema Corte il fatto che quella clausola non potesse esser considerata vessatoria, non limitando la responsabilità dell’assicuratore ma solo il perimetro della garanzia (e dunque l’oggetto del contratto), non poteva esaurire il sindacato sulla tenuta della clausola medesima, da leggersi piuttosto (proprio) al filtro dell’art. 166 del Cap.  Secondo la Cassazione, la violazione del requisito formale prescritto dall’art. 166, comma 2, Cap (a mente del quale le pattuizioni che limitano la garanzia, anche se non vessatorie, devono comunque essere riportate con caratteri di particolare evidenza) può comunque condurre all’inefficacia della clausola, ai sensi del primo comma dell’art. 1341 c.c., comma 1.

IL RISCHIO PER L'IMPRESA  
Il richiamo alle prescrizioni del codice civile (contenuto dall’art. 165 del Cap) consente invero di leggere le regole di redazione dell’art. 166 del Cap non soltanto come obblighi la cui violazione comporta una potenziale responsabilità risarcitoria dell’impresa (ad esempio, per infrazione del generico principio di buona fede nella stipula e nell’esecuzione del contratto) ma come espressione delle coordinate minime di chiarezza indispensabili a far ritenere che una clausola unilateralmente predisposta dall’impresa sia stata effettivamente conosciuta dal cliente, inteso quale parte debole del rapporto assicurativo. 
Il seguente passaggio della sentenza in commento risulta eloquente: “Il coordinamento della disposizione dell’art. 166, comma 2, Cap con la disposizione dell’art. 1341 c.c., comma 1, implica che l’adempimento dell’onere formale di ‘evidenziazione’ della clausola, sottrae il predisponente dalla non agevole prova della effettiva conoscenza o conoscibilità della clausola da parte dell’aderente […] Con la conseguenza che […] la inosservanza della regola formale di condotta, comporterà che il predisponente non potrà giovarsi della presunzione legale ‘juris tantum’ di conoscenza/conoscibilità della clausola redatta con caratteri grafici in risalto rispetto al testo contrattuale, ma troverà nuovamente applicazione la disposizione dell’art. 1341 c.c., comma 1, per cui la efficacia della clausola nei confronti dell'aderente transiterà per la prova, che non incontra limitazioni, gravante sul predisponente, della effettiva conoscenza (ad esempio perché oggetto di trattativa puntuale) o conoscibilità della clausola secondo la ordinaria diligenza”.  
Insomma, la mancata evidenziazione nel testo delle clausole più insidiose per il cliente comporta, per l’impresa, il serio rischio di non potersene avvalere in concreto. E così, nel caso di specie, pur avendo percepito un premio per un rischio contrattualmente circoscritto (ai danni correlati a fenomeni atmosferici) l’assicuratore non potrà probabilmente opporre al cliente quella limitazione, per il solo fatto di non averla evidenziata graficamente con particolare rilievo.

IL PRINCIPIO DEL CONTRATTO "GIUSTO"  
Prosegue la Suprema Corte affermando che l’obbligo di metter in evidenza le clausole che indicano “limitazioni della garanzia” si inserisce nel più generale dovere di chiarezza, trasparenza ed esaustività predicato dall’art. 166 e integra le regole di condotta alla cui osservanza i distributori assicurativi sono più generalmente tenuti nella formulazione delle offerte e nella gestione del rapporto precontrattuale e contrattuale con la clientela.   Non è, naturalmente, questa la sede per compiutamente trattare il tema delle nuove responsabilità correlate alla violazione del coacervo di quelle regole di condotta che, ribadite dalla Idd in termini certamente rafforzativi rispetto al passato, riguardano la fase di allestimento, redazione, collocamento, stipula ed esecuzione di un contratto assicurativo. 
Basterà qui lanciare un allarme circa il fatto che il comparto assicurativo potrebbe soffrire, nel prossimo futuro, di un rigurgito di conflittualità alimentata, proprio sul versante della trasparenza e correttezza precontrattuale e contrattuale, da chi cerchi, ad esempio, una via comoda per sottrarsi all’applicazione di limiti di garanzia oppure il pretesto per uscire a buon mercato da un rapporto assicurativo in corso di contratto o ancora occasioni per dar corso ad iniziative risarcitorie (oggi potenzialmente agevolate anche dalla più stringente disciplina della class action di cui alla legge 31 del 2019). 

UN ACCORDO MENO AFFIDABILE? 
Ma è soprattutto sul piano della riqualificazione del contratto che la giurisprudenza sta, in questi ultimi anni, disegnando traiettorie che una volta non erano neppure immaginabili, in nome di un principio, quello della tutela del cliente/assicurato, che sovente travolge e sgretola i contenuti sostanziali stigmatizzati in polizza. L’assicuratore deve dunque confrontarsi con il rischio concreto di non poter più fare cieco affidamento su quanto formalizzato nel contratto assicurativo, in particolare ogni qualvolta il cliente lamenti di non aver compreso, né condiviso, determinate limitazioni di copertura, incoerenti con le proprie aspettative di garanzia. 
Vari gli strumenti a cui quella giurisprudenza attinge. Primo fra tutti quello dell’interpretazione del contratto secondo buona fede e, soprattutto, “contro il predisponente”, in forza del quale “le clausole di polizza che delimitino il rischio assicurato, ove inserite in condizioni generali su modulo predisposto dall’assicuratore, sono soggette al criterio ermeneutico posto dall’art. 1370 c.c., e pertanto, nel dubbio, devono essere intese in senso sfavorevole all’assicuratore medesimo” (Così Cass. 866/2008). 
È in applicazione di questo criterio interpretativo che, in tempi recentissimi, la Cassazione (sentenza 18324 del 9 luglio 2019) ha ritenuto che una clausola di rivalsa per guida in stato di ebbrezza sia incompatibile con, e dunque soccomba innanzi a, un impianto contrattuale che a più riprese dichiari espressamente di garantire al consumatore la copertura più ampia possibile.  
A far da cornice a questa tendenza giudiziale vi è poi un’altra celebre sentenza, perentoria nell’inchiodare l’assicuratore al rispetto dei propri obblighi di chiarezza linguistica e redazionale: “se dunque i compilatori della polizza […] unilateralmente predisposta, adottarono soluzioni lessicali incerte o ambigue, imputent sibi, restando fermissimamente escluso che possano ricadere sull’assicurato le conseguenze della modestia letteraria o dell’insipienza scrittoria dell’assicuratore” (sentenza 668 del 18 gennaio 2016). 

L'OBBLIGO DI ADEGUATEZZA 
Ma non è solo il lavorio interpretativo pro consumeristico sul testo contrattuale a potenzialmente modificare, quando non addirittura stravolgere, l’impianto contrattuale di partenza di una data polizza. La necessità che l’assicuratore fornisca soluzioni assicurative davvero utili e aderenti alle esigenze di copertura del proprio cliente introduce, nel nostro ordinamento, secondo la Cassazione, l’obbligo di adeguatezza del contratto assicurativo. Un obbligo che “già presente nell’ordinamento in forza del principio di buona fede e correttezza (articoli 1375 del Codice civile e 2 della Costituzione)” postula oggi, più che mai, “la giuridica esigenza che il contratto assicurativo sia adeguato allo scopo pratico perseguito dai paciscenti”. 
Ecco dunque che, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte nella sentenza 22437 del 2018, in tema di claims made, la tutela invocabile dal contraente assicurato può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell'attuazione del rapporto, sino addirittura implicare la “…nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell'adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti”.  E dunque un contratto non adeguato, e perciò non conforme alla sua causa in concreto (da ricercarsi nell’effettiva esigenza di protezione dell’assicurato) rischia di venir dichiarato parzialmente nullo ed esser perciò riqualificato in aderenza a uno schema di garanzia potenzialmente assai distante rispetto a quello che l’impresa assicurativa aveva sottoscritto all’atto della stipula (quotando il relativo rischio, e percependo un premio commisurato al perimetro di copertura formalmente offerto in polizza). 

IL BENCHMARK DI RIFERIMENTO PER ESSERE ASSICURATORI MODERNI 
Insomma, e per concludere: scrivere contratti semplici e chiari, mappare correttamente il processo di stipula, mettere il cliente in condizione di sottoscrivere clausole contrattuali perfettamente conosciute e non equivocabili nei loro contenuti, non è più soltanto un esercizio di stile né, tantomeno, espressione di un ossequio meramente formale a regole giuridiche secondarie. Tutto al contrario, si va stagliando, nel nostro ordinamento, la figura (forse retorica ma certo insidiosa) del contratto assicurativo giusto, quale benchmark di riferimento al quale ancorare la responsabilità dell’assicuratore moderno. Un contratto che dia protezioni e garanzie effettive, regoli gli interessi della mutualità e del singolo in modo equilibrato, superi le asimmetrie di posizione e, soprattutto, sia tale da poter esser davvero compreso nei suoi contenuti sostanziali da un cliente che deve esser posto in grado di scegliere consapevolmente il livello di copertura adeguato alle sue esigenze di rischio, compatibilmente con le sue capacità di spesa. 
Solo così, l’antico, e sacro, principio del pacta sunt servanda potrà continuare a valere nel comparto dei servizi assicurativi. E l’affidamento dell’assicuratore sulla effettiva tenuta dei suoi contratti costituisce condizione imprescindibile per una corretta gestione dell’impresa assicurativa nel rispetto delle regole prudenziali e di solvibilità imposte dal legislatore europeo e nazionale.  Il tutto, ovviamente, senza considerare il rischio sanzionatorio derivante dal mancato rispetto degli obblighi di adeguamento delle polizze alle prescrizioni dell’autorità di vigilanza in materia di contratti semplici e chiari. Rischio che deve esser invece apprezzato, dopo la riforma dell’apparato sanzionatorio introdotta da Idd, con la necessaria serietà.

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