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Il pensiero critico passa dalle emozioni

Tra le dieci top skills considerate più utili è entrato per la prima volta il “critical thinking”, una capacità di discernimento logico che va allenata per non incorrere nel rischio di farsi influenzare o, al contrario, di essere vittime dei propri pregiudizi

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Produrre risultati in un mondo che va di corsa, con repentini cambiamenti di rotta, pressioni continue, tsunami di informazioni e comunicazione in tempo reale, richiede nervi d’acciaio, razionalità e, soprattutto, pensiero critico. Saper distinguere il vero dal falso, non farsi influenzare da fake news e manipolazioni, pur mantenendo apertura e flessibilità, è una competenza fondamentale per poter prendere decisioni efficaci, agire con coerenza, gestire il cambiamento. Non a caso il World Economic Forum indica il pensiero critico tra le 10 competenze indispensabili per affrontare il mondo del lavoro nel 2020, introducendo anche, fra queste, l’intelligenza emotiva (new entry).

Che nesso c’è fra le due competenze? Per molti il pensiero critico è puramente logico-razionale: “è un tipo di pensiero che si propone di raggiungere un giudizio attraverso processi mentali di discernimento, analisi, valutazione, inferenza, non disgiunti da spiegazioni delle considerazioni sulle quali si fonda quel giudizio”. 
Nella realtà lavorativa, perché il pensiero critico non sia un mero esercizio di stile, ma consenta di cogliere opportunità, prendere decisioni rapide, individuare soluzioni sostenibili e metterle a terra, serve una marcia in più: la gestione delle emozioni. In particolare, la componente emotiva è un fattore determinante per superare i due grandi ostacoli del pensiero critico: influenzabilità e pregiudizio

L’ostacolo dell’influenzabilità
Prendiamo l’esempio di Tali Sharot, che da anni studia in che modo motivazione ed emozioni determinano le nostre attese per il futuro, le decisioni, i ricordi, la capacità di apprendimento. Nel suo libro The influential mind racconta come lei stessa abbia avuto una reazione immediata e viscerale di panico davanti a una colorita affermazione anti-vaccini di Donald Trump, pur conoscendo a fondo la letteratura scientifica ed essendo razionalmente convinta, con tanto di dati, che vaccinazioni e autismo non siano correlati. All’epoca era madre di due bambini, di due anni e mezzo e di sette settimane: le parole di Trump sono andate dritte al suo umanissimo bisogno di controllo, inducendo un’emozione, la paura, che ci rende influenzabili e paralizza i nostri processi mentali. Da neuroscienziata, sorpresa dalla sua reazione, si è fermata a osservare la sua emozione, ha compreso i meccanismi che avevano preso 
in ostaggio il suo cervello e si è data lo spazio della scelta. Sappiamo fare altrettanto? Conosciamo i nostri schemi? Diamo un nome alle nostre emozioni quando riceviamo notizie allarmanti o richieste inattese? Come affrontiamo le sfide di un mercato sempre più mutevole e imprevedibile? Ci prendiamo lo spazio per scegliere, anziché reagire? Tutto questo passa per la consapevolezza emotiva, che va costantemente allenata, anche nel contesto lavorativo dove spesso, indossando la corazza del ruolo e della professionalità, tendiamo a lasciare le emozioni fuori dalla porta.

Pregiudizio è non dubitare
È l’opposto dell’influenzabilità, ma portato all’estremo è altrettanto dannoso per il pensiero critico. Rimanere ancorati alle proprie certezze, non dubitare delle proprie convinzioni, essere sicuri di avere ragione sempre e comunque sono modalità che ci rendono credibili e autorevoli, finché non commettiamo errori. Il rischio è l’autoreferenzialità, che ci rassicura ma ci limita, precludendoci la possibilità di cogliere opportunità, considerare prospettive diverse, innovare e gestire il cambiamento anziché subirlo.
Siamo sempre consapevoli dei nostri pregiudizi e dei loro effetti sulla nostra efficacia professionale? Sappiamo vedere l’opportunità nel cambiamento, o vediamo solo la fatica e la difficoltà? Sappiamo fare nostri nuovi strumenti di lavoro, o ci arrocchiamo nel si è sempre fatto così?

Il valore dell’empatia
Ancora una volta ci viene in aiuto l’intelligenza emotiva e, in particolare, l’empatia, intesa non semplicemente come mettersi nei panni degli altri, ma come la capacità di vedere le cose dalla prospettiva di un’altra persona, sia dal punto di vista cognitivo che emotivo. In altre parole, essere empatici significa immaginare e comprendere le convinzioni e opinioni dell’altro, sentire le sue emozioni, comprendere e percepire la realtà attraverso i suoi occhi. Per poi tornare a se stessi, alle proprie emozioni e scegliere, considerando costi e benefici per sé e per l’altro.
Secondo uno studio dell’Università di Cordova, l’empatia influenza indirettamente la nostra tendenza all’apertura al nuovo o alla chiusura mentale del pregiudizio: una persona con un basso livello di empatia tenderà ad assumere più facilmente atteggiamenti autoritari e ad avere pregiudizi. Un alto livello di empatia, davanti al nuovo o alla diversità, induce alla curiosità, che è uno stato emotivo scevro da pregiudizi.
Sfatiamo un diffuso pregiudizio sull’empatia: non è una competenza solo innata, non è appannaggio del genere femminile, non è indice di debolezza o scarsa autorevolezza. È in realtà, una componente fondante della leadership emotiva, quella che fa accadere le cose portando a bordo le persone. Anche questa è una competenza che si può e si deve apprendere e allenare, con metodo e sistematicità.

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