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Ivass abbraccia la Cassazione sulle clausole vessatorie

Possono alcune clausole di polizza, pensate con lo scopo di rendere più completo e sicuro il processo di risarcimento, essere interpretate come vessatorie nei confronti dell’assicurato? Nell’articolo si analizza un caso giunto a sentenza in Cassazione e ripreso come esemplare da Ivass allo scopo suggerire un metodo per la tutela del diritto del cliente

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Entrando a gamba tesa sulla questione delle clausole vessatorie nelle polizze vita, la Corte di Cassazione, ha recentemente preso una posizione destinata a essere a lungo ricordata, potendo produrre pesanti impatti (ed impacci…) sulle prassi liquidative da tempo in uso nel mercato di riferimento.
Ci riferiamo alla sentenza n. 17024 del 20 agosto 2015 che è giunta addirittura a definire come cocktail giugulatorio l’insieme di alcune (ricorrenti) previsioni di polizza che subordinano l’erogazione della prestazione assicurativa all’assolvimento, da parte del beneficiario di una copertura sulla vita, di una serie di oneri e formalità (tra cui l’allegazione a proprie spese di determinati documenti) ritenuti dalla Corte niente affatto indispensabili alla corretta liquidazione del dovuto (e pertanto produttivi del solo effetto di ritardare il pagamento del dovuto o di sostenere l’assicuratore nella formulazione di eventuali eccezioni attraverso le quali resistere alle pretese dei beneficiari).
Il caso di specie riguardava una polizza sulla vita per il caso di morte, con previsione di pagamento di un capitale a favore di un beneficiario all’uopo designato. Quindici giorni dopo la stipula l’assicurato decedeva in conseguenza di un ictus; ciò non di meno l'assicuratore rifiutava la propria prestazione, adducendo, tra l’altro, che il beneficiario non aveva accompagnato la domanda di pagamento del capitale con tutti i documenti richiesti dal contratto. In particolare non venivano allegate la relazione medica sulle cause della morte e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà dalla quale ricavare la qualità di erede in capo al beneficiario.
Il rigetto della richiesta di pagamento veniva motivato invocando l’operatività di una clausola che, inserita nelle Condizioni generali di Polizza, stabiliva che il beneficiario che volesse incassare il capitale indicato in contratto per la morte del portatore di rischio dovesse:
(a) sottoscrivere una domanda su apposito modulo predisposto dall'assicuratore, e per di più farlo "presso l'agenzia di competenza";
(b) produrre il certificato di' morte del portatore di rischio;
(c) produrre una relazione medica sulle cause della morte, scritta da un medico su un modulo predisposto dall'assicuratore;
(d) produrre una dichiarazione del medico autore della relazione di cui sopra, nella quale questi attesti di avere "personalmente curato le risposte";
(e) produrre, a semplice richiesta dell'assicuratore, le cartelle cliniche relative ai ricoveri subiti dal portatore di rischio;
(f) produrre un atto notorio "riguardante lo stato successorio" della persona deceduta;
(g) produrre l'originale della polizza.

Per la Corte, una simile clausola, del tutto sovrapponibile o comunque simile ad altre previsioni di polizza in uso sul mercato (non solo del ramo vita ma anche di determinate coperture della salute, nel ramo danni), sarebbe “manifestamente vessatoria” per contrasto con l’art. 33, lett. q, del Codice del Consumo.

La lettera al mercato di Ivass


Nel suo potere/dovere di orientare il mercato alla sana e prudente gestione dell’attività assicurativa e alla trasparenza e correttezza dei soggetti vigilati (art. 5 CAP), Ivass, certo, deve tener conto degli orientamenti giurisprudenziali, ma non si ricorda, a memoria, un intervento tanto drastico e immediato quanto quello di cui alla lettera al mercato del 17 novembre 2015, con cui l’Istituto ha inteso recepire in toto quelle indicazioni giurisprudenziali, trattandole alla stregua di autentiche regole cogenti e trasponendole in una comunicazione sostanzialmente precettiva. In quella lettera, invero, l’Istituto «… richiama l’attenzione delle imprese sull’importanza di adottare le idonee iniziative volte a recepire le indicazioni della Corte nella redazione delle clausole dei nuovi contratti di assicurazione sulla vita e nella gestione delle richieste di indennizzo relative a contratti già stipulati che dovessero contenere clausole analoghe a quelle oggetto di censura».
Ciò che, ancor di più, stupisce il lettore è come la lettera al mercato vada addirittura oltre rispetto alle intenzioni della Cassazione: quest’ultima, invero, pur affermando la gravosità di tutte le previsioni che la compongono, bolla di “vessatorietà” la clausola di polizza nel suo complesso, rilevando come la stessa ritragga la propria illegittimità dalla sommatoria degli oneri dalla stessa disciplinati (il cocktail giugulatorio, appunto…); non giunge invece ad affermare l’autonoma vessatorietà di ognuna delle singole previsioni contenute nella clausola. È nel suo insieme che la norma contrattuale rivelerebbe la propria abusività, non invece – o non necessariamente – in ciascuno dei suoi singoli sottopunti.
Ivass, invece, sembra volersi spingere molto più in là, censurando non solo la clausola “cumulativa” presa in esame dalla Cassazione, ma ogni singola previsione che ne costituisce parte integrante.
Così facendo l’Autorità di Vigilanza, incurante dei notevoli impatti che potranno prodursi sull’operatività degli assicuratori del ramo vita, dimostra una severità forse eccessiva: vuoi perché finisce per omologare a legge taluni principi espressi da una – per quanto autorevole – sezione semplice (la terza) della Cassazione (principi che, del resto, per quanto brillantemente elaborati, non paiono tutti scolpiti nella roccia). Vuoi perché nel suo slancio, la censura dell’Istituto oltrepassa addirittura i limiti di quella sentenza.
Rimane il fatto che la pretesa natura abusiva della clausola – e soprattutto delle singole previsioni che la compongono – non sembra, almeno a chi scrive, così evidente o, meglio, non sempre queste previsioni finiscono per produrre quello squilibrio nel rapporto sinallagmatico che si pone a fondamento (sebbene per presunzione) del giudizio di vessatorietà.
Più ragioni sostanziali potrebbero, invero, giustificare l’inserimento in polizza di buona parte delle previsioni criticate dalla Cassazione e bollate come nulle da Ivass. Non si dimentichi, poi, che sebbene – spesso - i capitolati di polizza si assomiglino tra loro, non tutte le polizze per infortunio mortale o caso morte sono identiche per portata, contenuto, natura e limiti della prestazione ottenibile (il che rende ancor più complesso affermare in termini generali l’asserita tipicità della natura vessatoria di consimili clausole alle diverse combinazioni e soluzioni di prodotto presenti sul mercato).

Quale vessatorietà?

Vien dunque da chiedersi se, al di là del lapidario giudizio di Ivass (e della Suprema Corte), si possa davvero ritenere che tutte le singole cautele previste nel modello di clausola sopra riportato siano abusive, vessatorie e, dunque, nulle (in assenza di prova contraria) ai sensi dell’art. 33, co. 2, lett. q), del Codice del Consumo.
Un’analisi a tutto tondo della questione potrebbe, invero, condurre a conclusioni meno perentorie.

Procedendo, così, per singoli passi, possiamo anzitutto occuparci della (parte di) clausola che pone a carico del beneficiario l’onere di produrre una «relazione medica sulla morte del portatore di rischio», la cui censurabilità deriverebbe, oltre che dai costi impropriamente posti a carico dell’avente diritto, dal fatto di imporre a quest’ultimo «l'onere di documentare le cause del sinistro, onere che per legge non ha». Ed invero, secondo la Cassazione il beneficiario, nell'assicurazione sulla vita, avrebbe «il solo onere di provare l'avverarsi del rischio, e quindi la morte della persona sulla cui vita è stata stipulata l'assicurazione (cd. portatore di rischio). La circostanza che la morte possa essere avvenuta per cause che escludano l'indennizzabilità secondo le previsioni contrattuali, in quanto fatto estintivo della pretesa attorea, va provato dall'assicuratore, non dal beneficiario». Tale argomento non convince del tutto; e infatti, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte il regime del riparto degli oneri probatori in sede di liquidazione sembra atteggiarsi in termini totalmente diversi: sta, infatti, sull’assicurato (o sull’avente diritto) l’onere di provare l’esistenza di un titolo su cui la propria pretesa si fonda e di dimostrare tanto l’operatività della copertura quanto la (correlata) insussistenza di eventuali esclusioni di polizza (Cass. Civ., Sez. III, 6.6.2014, n. 12837).
Ancorché elaborato, per lo più, nell’ambito del ramo danni, tale principio sembra valere anche nel comparto vita (tanto più nei contratti di puro rischio). L’allegazione della relazione medica (normalmente compensata, in termini di costo, dal senso dell’operazione economico assicurativa sottostante) non sembra, dunque, per nulla votata a invertire il fisiologico onere probatorio ma, al contrario, a individuare convenzionalmente il documento mediante il quale l’avente diritto potrà assolverlo (in tutto o in parte).

La necessità di avere informazioni aggiornate  

Ancor meno condivisibile appare la critica relativa alla previsione per cui il beneficiario deve sostenere la propria richiesta con l’allegazione di un atto notorio riguardante lo stato successorio del deceduto. A dire della Cassazione, si tratterebbe di un onere inutile posto che il beneficiario acquista il diritto all'indennizzo jure proprio e per l'assicuratore sarebbe irrilevante sapere se il deceduto sia morto ab intestato oppure no (salva l’ipotesi, non ricorrente nel caso di specie, in cui l’indicazione del beneficiario venisse essa stessa fatta per relationem, avuto riguardo, genericamente, agli eredi dell’assicurato). In altro passaggio della motivazione, la sentenza precisa che “per evitare pagamenti erronei l'unica esigenza dell'assicuratore è accertare l'identità personale del richiedente l'indennizzo, fine per il quale il possesso della polizza è irrilevante”. In definitiva l’impresa dovrebbe semplicemente limitarsi a verificare se il beneficiario della (spesso ingente) prestazione sia lo stesso nominativamente indicato in polizza (o se lo stesso rientri genericamente tra gli eredi, posto che in tal caso egli parteciperebbe della liquidazione iure proprio, senza che in alcun modo abbia ad incidere la misura effettiva della sua legittimazione ereditaria). Sennonché più ragioni depongono per l’opportunità di chiedere l’acquisizione dell’atto notorio sullo stato successorio dell’assicurato.
Da un lato perché, ai sensi degli artt. 1920 e 1921 C.C. la designazione originaria di polizza potrebbe non resistere al tempo e trovarsi modificata nel testamento eventualmente predisposto dal portatore del rischio.
E quindi la compagnia potrebbe avere interesse a ottenere non soltanto l’attestazione notoria dell’intervenuta successione ma anche copia del testamento medesimo, onde verificare (in tempi celeri e senza attendere la sua eventuale pubblicazione) se all’interno dello stesso l’indicazione del beneficiario non fosse variata.
Ma non solo: la verifica delle effettive volontà successorie del portatore di rischio diverrebbe imprescindibile ai fini della corretta ripartizione del capitale di polizza tra i diversi eredi, pur se impersonalmente e genericamente indicati quali beneficiari, laddove trovasse ascolto l’orientamento propugnato da una ancor più recente sentenza della medesima terza sezione di Cassazione: il riferimento corre alla pronuncia n. 19210/2015 secondo la quale il diritto dei beneficiari, quando nominati in qualità di eredi, dovrebbe intendersi non come paritetico bensì come ripartito proporzionalmente in funzione della quota di eredità effettivamente dovuta a ciascun coerede.

Al riguardo, l’aperto contrasto giurisprudenziale sorto in seno alla stessa corte Suprema su di un tema tanto centrale consente di evidenziare l’assoluta inopportunità, per gli operatori (e a maggior ragione per Ivass…) di trarre da singole sentenze, tanto più laddove innovative, vere e proprie indicazioni di metodo, da applicarsi generalmente al mercato.
Analogo ragionamento potrebbe poi essere svolto per la richiesta al beneficiario di presentare copia della polizza in originale. Sostenere che trattasi di richiesta inutile, in ragione dell’obbligo per l’impresa di conservare uno degli originali, non pare del tutto convincente. Infatti, sempre ai sensi dell’art. 1920 C.C., la designazione del beneficiario potrebbe essere fatta al tempo della stipula o successivamente, magari proprio intervenendo sulla copia di polizza in possesso del contraente. Potrebbe poi capitare che l’originale conservato presso l’impresa non riporti neppure l’indicazione di un beneficiario. D’altra parte, innanzi alla potenziale (e variegata) ambulatorietà della designazione, la richiesta dell’originale di polizza potrebbe rivelarsi niente affatto vessatoria, ed ispirata a regole di cautela ed opportunità (consentendo all’impresa di verificare che il contraente non abbia indicato un diverso beneficiario, rispetto a quanto riportato nella copia tenuta dall’impresa, o ne abbia aggiunti/esclusi altri rispetto alla pattuizione originaria). Si ricorda come, secondo l’orientamento maggioritario, l’indicazione del beneficiario è atto unilaterale non recettizio del contraente (che non necessità alcuna preventiva adesione da parte dell’impresa, ma che per poter essere rispettato deve esserle comunicato prima della liquidazione).

Quando serve la cartella clinica

Quanto, invece, al tema relativo all’onere di produrre “le cartelle cliniche relative ai ricoveri della persona deceduta», il ragionamento svolto dalla sentenza in commento può esser condiviso nella parte in cui ne censura la vaghezza, rilevando una genericità che potrebbe risolversi nella pretesa di veder prodotte “tutte” le cartelle cliniche del de cuius (onere ben difficilmente soddisfacibile in concreto).
Ciò posto, a differenza della relazione medica, la richiesta di acquisizione della cartella clinica risulta rivolta non tanto a verificare che non sussistano ragioni di esclusione di operatività della garanzia quanto a consentire all’impresa assicurativa di vagliare la correttezza delle informazioni sanitarie rese dal portatore del rischio al momento della stipula ed in funzione di quella. È noto, al riguardo, come la prova delle inesattezze e delle reticenze (ai fini dell’applicazione dei rimedi di cui agli artt. 1892 e ss. C.C.) gravi, per giurisprudenza consolidata, sull’assicuratore, ragion per la quale il dubbio che una tale richiesta finisca per ribaltare quell’onere sull’avente diritto non pare mal posto. Purtuttavia rimane un problema di fondo: escludere la possibilità per l’assicuratore di chiedere la produzione della cartella clinica al beneficiario significa, sostanzialmente, svuotare di contenuto effettivo – o almeno gravemente depotenziare - la fondamentale fase della verifica preassuntiva, durante la quale l’assicurato compila un questionario, fornendo dichiarazioni sul proprio stato di salute e firmando, assai di frequente, una clausola liberatoria volta ad autorizzare tutti i medici (nonché gli Enti ed Istituti pubblici o privati) a rilasciare all’impresa, anche in corso di contratto, notizie di carattere sanitario che lo riguardano.
La richiesta di acquisizione della cartella clinica costituisce, dunque, il principale strumento per poter valutare la correttezza di quei dati precontrattuali. Il che induce a ritenere che la relativa previsione di polizza debba essere valutata con maggiore apertura, tenuto conto delle asimmetrie informative che connotano naturalmente la relazione tra le parti: la disponibilità del contraente/assicurato a compilare il questionario va, dunque, considerata in funzione della possibilità, così attribuitagli, di stipulare la polizza in modo alleggerito, senza chiedergli di sottoporsi ad esami e visite mediche e confidando sulla sua buona fede negoziale. Di qui l‘esigenza che quei dati spontaneamente dichiarati possano essere poi verificati in concreto. L’importanza, anche prospettica, delle coperture della salute e delle garanzie previdenziali pare, poi, rafforzare una tale impostazione, tesa a stimolare un mercato assicurativo che dovrebbe esser potenziato piuttosto che ingessato attraverso l’appesantimento degli accertamenti precontrattuali (inevitabile, qualora la richiesta di esibizione della cartella clinica venisse ritenuta illegittima in fase di liquidazione). Insomma, la pretesa di poter accedere a documenti medici in sede di liquidazione sembrerebbe ben compensata dalla facilitazione assuntiva iniziale, semplificata dalla raccolta di autodichiarazioni sostitutive di veri e propri accertamenti medici. Quanto, poi, alla questione
afferente alla privacy, gli argomenti utilizzati dalla Cassazione per rinforzare il proprio giudizio di vessatorietà sulla clausola paiono superabili, tenuto conto della posizione espressa al riguardo tanto dal Garante della Privacy (provvedimento del 12 aprile 1999 n. 39921) che dal Consiglio di Stato (Sezione III, 12 giugno 2012 n. 3459).

Il ruolo dell’intermediario


Decisamente meno accattivante, in un mondo di comunicazioni sempre più orientate al digitale, risulta poi la censura relativa alla pretesa, da parte di alcune compagnie, di subordinare la prestazione alla compilazione di un modulo pre approntato. Per quanto forse inutilmente formalistico, non ci pare che tale incombente integri di per sé di un chiaro squilibrio di posizione e risulti, perciò solo, lesivo degli interessi del beneficiario (il quale, anzi, potrebbe trovarsi “guidato” nella corretta formulazione della propria richiesta di liquidazione). Qualche diversa considerazione potrebbe essere svolta per i casi in cui la clausola preveda che tale modulo debba esser compilato «presso l'Agenzia […] di competenza». Secondo la Cassazione una previsione di tal fatta violerebbe «addirittura la libertà personale e di movimento del beneficiario, imponendogli di fatto una servitù personale senza nessun beneficio o vantaggio per l'assicuratore».
Anche tali drastiche conclusioni potrebbero esser riviste, nell’ambito di una più ampia visione del problema. Il canale assicurativo vita rimane, a tutt’oggi, piuttosto resistente alla diffusione del collocamento telematico, fondandosi ancora per lo più sulla distribuzione territoriale a matrice agenziale o banca assicurativa. In questo contesto, attesa la delicatezza e l’importanza del prodotto, l’invito a rivolgere la domanda di indennizzo ad uno specifico agente, normalmente quello assegnatario del contratto, potrebbe avere una sua ragion d’essere.
È invero possibile che la gestione del contratto, comprensiva della gestione sinistri per tali rapporti, sia stata a questi delegata anche ai sensi dell’art. 1903 C.C. (ed anche per quel che attiene alla fase di regolazione delle somme in entrata ed in uscita, ex art. 117 CAP). L’intermediario di riferimento rimane dunque, nella filiera dell’operatività assicurativa “tradizionale”, il centro di relazione con l’avente diritto alla prestazione, in ogni fase del contratto.
Ma, al di là di quanto sopra, può considerarsi come il contatto vis à vis tra l’impresa (o i suoi rappresentanti) e il singolo beneficiario possa esser preferita anche in considerazione delle esigenze di effettiva (e prudente) verifica dell’identità del beneficiario, tanto più in relazione alla migliore e più attenta gestione delle procedure antiriciclaggio imposte a carico degli operatori.

Da ultimo, un esercizio andrebbe svolto per comprendere se effettivamente le clausole censurate rientrino o meno nei limiti della fattispecie censurata dall’art. 33, lett. q, del Codice del Consumo (“Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: “q) limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità”).  Si ritiene – per dar un qualche senso al riferimento al mandatario (ma anche la Direttiva europea 93/13/CEE vi fa riferimento) - che la fattispecie vessatoria sia integrata solo se l'eccesso di formalità venga a sussistere in funzione della presenza di un mandatario nella fase distributiva o ne sia almeno un accidente. Il che, a stretto rigore e tornando al caso di specie, sembrerebbe sostenibile solo in relazione alla clausola relativa all’obbligo di compilazione del modulo in agenzia.

Un nuovo modo di intendere l’assicurazione

Se le considerazioni sopra svolte sono vere, o comunque tali da far dubitare delle conclusioni a cui è pervenuta l’Autorità di vigilanza, vi è da chiedersi quali siano le ragioni di metodo o di pensiero che abbiano determinato un approccio così severo.
Senza volersi, qui, interrogare se Ivass disponga, effettivamente, del potere di intervento sulla materia (atteso che la vessatorietà delle clausole contrattuali pare rientrare, piuttosto, nell’ambito di intervento dell’Agcm, ai sensi dell’art. 37 bis del Codice del consumo), l’intera questione avrebbe potuto esser affrontata da un altro angolo visuale, mettendo in discussione non tanto la legittimità “genetica” delle clausole sopra esaminate quanto la correttezza, in concreto, dei processi liquidativi adottati dalle imprese. Si sarebbe, cioè, potuto verificare se le compagnie mettano in atto pratiche scorrette, abusando dei poteri (pur legittimamente) riservatisi in contratto e finendo per pretestuosamente sottrarsi ai propri doveri primari di pagamento (stoppando l’erogazione della prestazione con blocchi formalistici niente affatto necessitati).  
Senonché, l’impressione più generale che pare potersi ritrarre da quest’ultima lettera al mercato, così come da alcune tra le più recenti prese di posizione dell’Ivass, è quella di un mutato modo di concepire gli obiettivi della Vigilanza e, in ultima analisi, della stessa funzione assicurativa.
Il che non deve stupire, anzi.
Passata quasi sotto silenzio, la riforma dell’art. 3 del Codice delle Assicurazioni – introdotta dall’art. 1, co. 2, D.lgs. 12 maggio 2015, n. 74, attuativo della Dir. 2009/138/CE (c.d. Solvency II) – integra, in verità, un’importante dichiarazione di principio, ponendo nell’epicentro del sistema delle assicurazioni private gli interessi degli assicurati e, più in generale, degli aventi diritto alle prestazioni assicurative. La loro protezione è dunque anteposta agli altri più generali obiettivi che le imprese devono comunque perseguire, quali la stabilità del sistema e dei mercati finanziari, rimasti oggi ad orbitare in posizione chiaramente subordinata. Il quadro che se ne ricava risulta, se non ribaltato, profondamente inciso rispetto agli assetti della precedente versione dell’art. 3, che poneva invece su un piano di sostanziale parità la tutela degli utenti e della stabilità del mercato.
Si rivela dunque la linea di tendenza alla quale l’interprete sembra doversi conformare nel leggere le norme settoriali, orientandone l’ermeneutica in modo sempre coerente a tale ratio di sistema, privilegiando, nel dubbio, gli interessi dell’utenza a quelli dell’impresa.

Semplificazione dei prodotti, del linguaggio e dei processi. Correttezza, trasparenza, adeguatezza.


Tutti concetti e principi che vanno a comporre il moderno statuto protettivo dell’assicurato, disegnando un mercato improntato, oggi più che mai, a logiche di vero servizio, nell’ambito di una funzione assicurativa sempre più votata alla protezione di interessi socialmente rilevanti.
Di qui la nuova attenzione – alla più energica tutela degli aventi diritto – che pare connotare le più recenti iniziative di Vigilanza aprendo, conseguentemente, nuovi scenari relazionali tra le imprese e i loro interlocutori negoziali.
Tutto ciò è certamente condivisibile e, sul piano del principio, commendevole.
Ma lo slancio delle “tutele” non può spingersi tanto in là da dimenticare e mettere in pericolo una delle proposizioni di partenza sulle quali, in precedenza, l’ordinamento assicurativo si fondava. Ci riferiamo all’esigenza di rispettare la regola della sana e prudente gestione delle imprese, in funzione della stabilità del mercato e, dopo tutto, della stessa tenuta di lungo corso degli impegni assicurativi, nell’interesse finale degli aventi diritto.
In quest’ottica, “cassare” con eccessiva facilità prassi negoziali consolidate – quali talune tra quelle prese in esame dalla Cassazione e censurate da Ivass – rischia di sottovalutarne l’effettiva portata e la finalità cautelativa, nell’interesse di tutti gli stakeholders. Apportando, così, al sistema più danni che benefici.

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