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Come risarcire la nascita indesiderata

L’introduzione del concetto del “diritto a non nascere se non sani” apre le porte a un titolo al risarcimento da parte del nascituro verso i sanitari. Ma su tutto, rimane ancora sospeso il punto su a chi spetta l’onere probatorio nella richiesta di risarcimento

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Si accinge ad avere un’importante evoluzione disciplinare un altro dei temi cardine del nostro sistema di risarcimento del danno alla persona, vittima di illecito altrui. Con ordinanza n. 3569 del 25 febbraio 2015 (est. Sestini), è stata disposta la rimessione degli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione, perché valuti l’eventuale assegnazione alle sezioni unite della stessa Corte, in ordine al thema decidendum oggetto del caso esaminato, in quanto controverso all’interno della stessa giurisprudenza superiore.

La questione attiene a un argomento assai complesso e importante, che riguarda i profili causali e di risarcimento del danno nell’ipotesi di così detta nascita indesiderata. La questione tipica si pone, ad esempio, in ipotesi in cui la madre del nascituro abbia chiesto al medico ginecologo di approntare esami diagnostici prenatali, finalizzati al rilevamento di patologie congenite per il feto, con la prospettiva di valutare i rischi alla salute (per gestante e concepito) nella libera scelta sulla prosecuzione della gravidanza, e comunque ai fini della consapevolezza dello stato di salute del feto.  

I casi più comuni di richiesta di risarcimento Nell’ipotesi in cui il medico erri nella diagnostica prenatale, non segnalando, ad esempio, l’esistenza di patologie congenite del feto, ovvero comunque non metta la gestante (e il padre naturale) nella condizione di poter liberamente scegliere la prosecuzione della gestazione, nella consapevolezza delle malformazioni su cui colpevolmente ha omesso l’accertamento, il nostro ordinamento riconosce il risarcimento del danno (di natura non patrimoniale) così detto da “lesione del diritto alla procreazione cosciente”.

Nell’ipotesi in cui i genitori deducano che, ove avessero conosciuto la situazione clinica del feto, avrebbero optato per la scelta di interruzione della gravidanza, in conformità alla legge n. 194/1978, si profila un’ipotesi di risarcimento del danno per nascita indesiderata.  Il danno è lo stesso se, invece, i genitori contestino al medico di avere errato nella adozione e applicazione di strumenti anticoncezionali richiesti: si pensi al caso scolastico della gravidanza portata a termine per una coppia che aveva optato per interventi inibitori come vasectomia o altre tecniche inibitorie sulla madre.   

A chi tocca l’onere della prova  Se questa è la casistica di riferimento più frequente, va detto che in giurisprudenza si annoverano contrasti di rilievo su due questioni principali, entrambe ora evidenziate nell’ordinanza che si segnala e prossime dunque a essere risolte dalle sezioni unite della Corte di Cassazione. La prima questione riguarda l’onere probatorio nel giudizio risarcitorio intentato dalla gestante, ove ci si chiede a chi tocchi provare “la correlazione causale tra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto, ovvero l’esistenza delle condizioni necessarie per interrompere la gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione”.

In effetti, sul tema di chi debba nel giudizio dimostrare che, se la gestante avesse conosciuto (ad esempio) lo stato di malformazione fetale, certamente avrebbe interrotto la gravidanza, si scontrano due orientamenti: l’uno (più favorevole alla paziente) che ritiene la semplice richiesta di esami prenatali una presunzione di volontà della madre di condizionare la scelta di procedere con la gravidanza, liberandola così da altri oneri probatori. L’altro orientamento (più complesso sul piano probatorio) ritiene invece che la richiesta di indagini prenatali sia solo indice di una eventuale scelta interruttiva, che invece dovrà essere più compiutamente provata dalla madre stessa (per esempio con testimoni, con indicazioni di precedenti dichiarazioni, ovvero con prova di espressione di volontà certa in tale senso).  

Diritto del nascituro al risarcimento Ma ove, certamente, le sezioni unite saranno chiamate a dirimere un grosso contrasto interno alle proprie giudici, è sulla questione della titolarità e portata dei diritti risarcibili alle vittime di tale errore diagnostico prenatale. Pacifico il diritto al risarcimento del danno a favore della madre e del padre (talvolta anche dei fratelli), lo scontro è sull’esistenza del diritto a richiedere il risarcimento dei danni in capo al nascituro stesso, nel momento in cui venga al mondo, portatore della malformazione non tempestivamente diagnosticata dal medico.  Un sentenza della Corte di Cassazione del 2012 (n. 16754, est. Travaglino) mise a chiare lettere la titolarità del diritto del nascituro a chiedere il risarcimento del danno per la propria esistenza malformata, di fatto introducendo nel nostro ordinamento quello che è stato a buona ragione definito il “diritto a non nascere se non sani”.

Dopo tale pronuncia (che ebbe un forte scalpore nel mondo giuridico e medico), in effetti, la giurisprudenza è rimasta sospesa in questa incertezza interpretativa e la prospettiva è ora quella che si possa dare una indicazione positiva o negativa e soprattutto solutoria.  Il tema, che presumibilmente verrà sanato se saranno chiamate a pronunciarsi le sezioni unite, è dunque quello per il quale sussista in capo al nascituro, in questi casi, “il diritto a essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano (…) a nulla rilevando che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire”.  Due temi, dunque, assai complessi e controversi per i quali attendiamo la soluzione che dia certezza giuridica al sistema.  


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