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Polizza infortuni, si riapre il dibattito

Con la sentenza 2894 dell’11 aprile 2023, il tribunale di Milano torna sul tema del principio della compensatio lucri cum damno, e sul principio indennitario, ponendosi in aperto e dichiarato contrasto con quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, che aveva negato la possibilità di cumulo tra indennizzo e risarcimento - SECONDA PARTE

Polizza infortuni, si riapre il dibattito hp_vert_img
La vicenda sottoposta al vaglio del giudice milanese riguardava un’aggressione fisica subita da un cittadino a opera di un’artista di strada, che aveva risposto con un pugno al volto alle energiche lamentele ricevute per la sgradita e rumorosa esibizione. In corso di giudizio, il malcapitato attore rivelava di aver già ricevuto un’importante indennità per effetto di una polizza infortuni, ragion per la quale veniva eccepita la sostanziale estinzione del debito risarcitorio, già soddisfatto proprio attraverso l’indennizzo assicurativo (indennizzo di cui veniva affermata la non cumulabilità con il risarcimento). Tale eccezione veniva respinta dal tribunale con una motivazione articolata e volta chiaramente a ergersi a precedente significativo, quale segno di discontinuità rispetto alla posizione sostenuta al riguardo dalla Cassazione con la citata sentenza 13233 del 2014. E dunque, secondo il giudice milanese indennizzo assicurativo e risarcimento si possono certamente cumulare, specie quando la polizza prevede, come di solito avviene, la rinuncia alla surrogazione da parte della compagnia. 

SCOPI LATAMENTE PREVIDENZIALI?
Il ragionamento, complesso, posto alla base della motivazione mira a confutare, punto per punto, le argomentazioni svolte nel 2014 dalla Suprema Corte. E così, si legge nella sentenza, si dovrebbe in primo luogo considerare che la polizza infortuni ha per oggetto pregiudizi alla persona e poco si attaglia alle regole che governano il principio indennitario e che risulterebbero invece esser state scolpite dal codice civile per l’assicurazione di danni a cose. Ma al di là delle questioni teoriche di ordine generale è anche sul piano della ricognizione della causa in concreto del singolo contratto che ogni dubbio va risolto, apprezzando se le parti abbiano davvero inteso assoggettare la polizza al principio indennitario o se invece abbiano voluto perseguire scopi latamente previdenziali, diretti a soddisfare le aspettative di sostegno che un dato assicurato ha voluto veder soddisfatte al ricorrere di un suo danno alla salute, fissando in polizza, in accordo con l’assicuratore, la misura della prestazione dovuta in caso di sinistro. 
Proprio al filtro della causa in concreto (e dello scopo pratico del contratto condiviso all’atto della stipula) dovrebbe concludersi per l’assoluta ammissibilità del cumulo, e per la sostanziale indipendenza dell’indennizzo (concordato in polizza) e il risarcimento civilistico (di cui il contratto non tiene alcun conto).

LA RINUNCIA ALLA SURROGAZIONE
In questo senso depone, tra l’altro, la rinuncia alla surrogazione espressamente prevista nel contratto assicurativo di cui si è discusso in giudizio. Rinuncia che, a differenza di quanto predicato dalla Cassazione, non dovrebbe avvantaggiare il terzo responsabile, pena l’irragionevole frustrazione del principio di responsabilità “con buona pace della funzione deterrente della responsabilità aquiliana, ulteriormente scolpita anche dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con sentenza n. 16601 del 2017”. Il tribunale di Milano dichiara poi di non voler condividere la tesi secondo la quale la disciplina della polizza infortuni varierebbe in funzione della tipologia di infortunio (mortale o da lesione) occorso all’assicurato. 
In definitiva, così conclude la sentenza in commento, si ritiene “che la polizza stipulata dalle parti, per come in concreto articolata, risponda a una finalità previdenziale: il sig. P.B. ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata, in quanto ancorata a un prescelto capitale assicurato, non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all’investimento previdenziale”. 

LA DISCLOSURE CHE SI DEVE ALL’ASSICURATO
Come era lecito attendersi tale pronuncia ha colto nel segno, rimettendo in moto il dibattito, mai davvero sopito, sulla natura della polizza infortuni e sul suo assoggettamento al principio indennitario. Abbiamo già visto come la questione, lungi dall’esaurirsi in disquisizioni accademiche, sottenda implicazioni operative davvero significative. Se, da un lato, il divieto di cumulo potrebbe alleggerire i carichi risarcitori (o indennitari) delle imprese attive nel ramo infortuni o nel settore delle assicurazioni della responsabilità civile, dall’altro la riconduzione delle polizze infortuni entro le maglie del principio indennitario dovrebbe dar luogo a ricadute pratiche e commerciali di non poco rilievo. 
Nel collocamento del prodotto, e ancor prima nella sua costruzione, occorrerebbe prendere posizione sul tema e, comunque, informare l’assicurato circa il divieto di cumulo, spiegando che la rinuncia alla rivalsa non vale a consentirgli di esercitare diritti risarcitori che, nei limiti dell’indennizzo ricevuto, avrebbe perso (proprio per effetto di quell’indennizzo). Non solo: quella clausola di rinuncia, in ossequio al principio del value for money, non dovrebbe dar luogo ad alcuna maggiorazione di premio, dal momento che non attribuirebbe all’assicurato alcun valore aggiuntivo, anzi. La dovuta disclosure su tali aspetti potrebbe poi privare il prodotto del necessario appeal commerciale, finendo per penalizzare, anziché favorire, la commercializzazione di soluzioni assicurative di protezione della persona (di cui, invece, si sente un certo bisogno, specie nella moderna società del rischio). 

UNA POSIZIONE CHIARA DEL LEGISLATORE
E ancora, la rigorosa lettura del principio indennitario avrebbe quale effetto la necessaria correlazione del valore assicurato alla misura del danno risarcibile; il tutto avendo cura di chiarire in termini espliciti se il rischio garantito sia di carattere patrimoniale o non patrimoniale (ferma restando la causa infortunistica).
Si tratta di scenari lontanissimi da quanto avviene oggi nella prassi. Salvo i rari casi in cui sia stata pattuita effettivamente a vantaggio di (determinati) terzi (sottendendo un’indiretta copertura del loro rischio di responsabilità), la rinuncia alla surrogazione è considerata come clausola preclusiva dello stesso operare del meccanismo surrogatorio, e non invece come una formula volta a impedire l’esercizio del relativo diritto, comunque trasferitosi all’assicuratore. La somma assicurata è, d’altra parte, stabilita senza alcun effettivo riferimento alla quantificazione civilistica del danno, per come liquidato nelle corti nell’ambito di un giudizio risarcitorio. E se davvero la polizza infortuni è un contratto “socialmente tipico” (come affermato sin dal 2002 dalle Sezioni Unite della Cassazione), è proprio alle indicazioni della prassi che occorre riferirsi per trarre credibili conclusioni sulla natura e la funzione di quella soluzione di copertura. Certo, meglio sarebbe stato se il legislatore, tenendo conto dell’importanza delle polizze della salute, avesse dipanato ogni dubbio prendendo esplicita posizione al riguardo. Come ad esempio avviene in Francia, dove le assurances des personnes conoscono una loro disciplina tipica e piuttosto chiara nel regolare separatamente le componenti francamente indennitarie della prestazione assicurativa (rimborso spese mediche, non cumulabili e “naturalmente” assoggettate al principio indennitario) da quelle che sono invece destinate a soddisfare aspettative di sostegno liberamente (e forfettariamente) stabilite dalle parti al ricorrere dell’evento infortunistico (in relazione alle quali l’assicuratore non ha titolo per surrogarsi nei diritti dell’assicurato verso il terzo responsabile).

DUBBI SULL’INDEROGABILITÀ DEL PRINCIPIO INDENNITARIO
Ciò detto, a parere di chi scrive, la posizione assunta dal tribunale di Milano merita di esser presa in seria considerazione, proprio perché tesa a inquadrare la polizza infortuni in termini fedeli alla sua effettiva funzione economico-sociale; più fedeli di quelli predicati invece dalla Cassazione, ancoratasi al severo rispetto di principi giuridici (forse) meno incrollabili di quanto si è voluto far credere. I temi teorici sottostanti sono complessi, e non possono essere esaurientemente trattati in poche pagine. 
Rimane il fatto che la pretesa inderogabilità del principio indennitario, pur affermata dalla prevalente dottrina, è messa in dubbio dalla frequenza con la quale l’esperienza pratica se ne allontana (si pensi alle clausole di valore a nuovo, alle polizze stimate allo stesso meccanismo di liquidazione della componente patrimoniale del danno nella rendita Inail). Ma al di là della sua natura di principio di ordine pubblico (o meno) si può dubitare che lo stesso si applichi a tutte le assicurazioni del ramo danni o alle sole coperture dei danni a cose o patrimoni (come del resto sembrerebbe potersi desumere al tenore letterale di buona parte delle disposizioni dettate dal codice civile in materia assicurativa). E ancora vi è da chiedersi se il limite indennitario valga solo nell’ambito di rapporti assicurativi (o co-assicurativi) e non anche nel caso di concorso di indennizzo e obbligo risarcitorio di terzi. Tema, tale ultimo, che porta a interrogarsi se l’art. 1916 del Codice civile sia davvero derogabile (o, di converso, se la rinuncia alla surrogazione, a vantaggio dell’assicurato, sia invece da ritenersi nulla, perché contraria all’ordine pubblico). E invero, se di deroga/rinuncia si dovesse parlare, la stessa dovrebbe valere sempre, sia che si tratti di danni a cose che di danni a persona.

LA POLIZZA È DISANCORATA DAL LIMITE DEL RISARCIMENTO
Quale che sia la soluzione che si voglia accordare a tali dubbi interpretativi, rimane il fatto, e lo vogliamo ribadire, che la polizza infortuni, quale contratto socialmente tipico, risulta nella pratica prevalente del tutto disancorata dal limite del risarcimento civilistico del danno, essendo invece fondata sulla pattuizione convenzionale del valore assicurato, liberamente fissata dalle parti (in funzione delle aspettative di sostegno economico al verificarsi di un dato evento infortunistico). Il meccanismo di funzionamento di tal tipo di contratto è assai simile a quello di una polizza stimata, nella quale, a fronte della difficoltà di stabilire ex ante il valore del bene protetto in caso di sinistro, le parti fissano già in polizza l’ammontare della prestazione di garanzia che sarà erogata, senza necessità di ulteriori accertamenti di valore, al verificarsi del danno. Sennonché anche la polizza stimata sembra riferirsi alle assicurazioni di cose, quale eccezione alla regola che, sancita dall’art. 1908 c.c., limita l’indennizzo al valore (determinabile e tendenzialmente di mercato) che il bene garantito avrà al momento del sinistro. E comunque la stima avrebbe effetto all’interno del rapporto assicurativo ma, in assenza di specifiche disposizioni contrattuali, lascerebbe aperto il problema relativo al cumulo con il risarcimento civilistico (che potrebbe, ad esempio, esser negato dal terzo sul presupposto dell’avvenuta integrale riparazione dal danno conseguente alla liquidazione da parte dell’assicuratore dell’importo concordato, e stimato, in polizza).

UNA STRUTTURA ANCORA VAGA
Ci pare dunque di poter concludere che, in assenza di disposizioni normative ad hoc e a fronte della qualificazione (da parte della Cassazione) della polizza infortuni come contratto socialmente tipico, l’interprete debba arrendersi all’evidenza fattuale ed escludere l’applicazione alle polizze della persona del principio indennitario (nella sua duplice portata, endocontrattuale o in relazione al terzo responsabile). Eccezion fatta per quelle poste di garanzia che, riguardando spese mediche o altre voci di danno esattamente quantificabili, possano rientrare nella disciplina generale dettata dagli artt. 1905 e seguenti del Codice civile. Opinare diversamente significherebbe dover rivedere integralmente l’assetto di quelle condizioni di garanzia, non soltanto in relazione alla quantificazione dell’indennizzo in caso di sinistro ma anche in funzione dell’indicazione di partenza del valore assicurato (in relazione allo specifico rischio di danno dedotto in polizza). Non vi è chi non veda, peraltro, come le polizze infortuni, per come oggi strutturate, rimangano vaghe nella definizione del danno che si vorrebbe coprire (non patrimoniale o patrimoniale) in caso di infortunio. Ed anche per tale ragione non prendono alcuna posizione sul tema del principio indennitario, limitandosi a contenere clausole che sembrano deporre per la sua disapplicazione (rinuncia alla surrogazione in primis).

UNA SENTENZA CHE FARÀ RIFLETTERE I PLAYER DEL MERCATO
Sennonché non risulta infrequente che, una volta convenute in giudizio, le compagnie assicuratrici invochino a loro favore quanto stabilito dalla Cassazione e dunque il principio dello scorporo, per ridurre il risarcimento o rifiutare l’indennizzo, se eccedente il valore civilistico del danno. Ciò pone qualche problema di trasparenza nei confronti degli assicurati, che potrebbero non aver compreso, all’atto dell’acquisto della polizza, che la copertura sconta limiti o esclusioni di indennizzo nel caso in cui l’assicurato abbia già ottenuto un risarcimento nei confronti del terzo responsabile. E ciò a maggior ragione se la polizza contenga una generica clausola di rinuncia alla surrogazione, che un cliente di normale avvedutezza tenderebbe a intendere come inserita a suo favore, per consentirgli di liberamente chiedere il risarcimento al terzo, laddove l’infortunio sia da imputarsi alla sua responsabilità (a prescindere dall’intervenuta liquidazione dell’indennizzo assicurativo). Le norme europee, codicistiche e regolamentari, in tema di corretta costruzione e diligente collocamento dei prodotti assicurativi, dovrebbero dunque indurre adeguate riflessioni su tali temi, inducendo le imprese (tra l’altro) ad allestire processi di Pog che illustrino la scelta effettuata dall’impresa sull’applicabilità o meno del principio indennitario e sulla regola del cumulo o dello scorporo del risarcimento civilistico. La sentenza del tribunale di Milano dovrà/potrà dunque portare gli operatori di mercato a considerare se e come rivedere i loro prodotti, in ottica di trasparenza e soprattutto di prevenzione di potenziali dubbi applicativi e relativi contenziosi.

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