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Polizza infortuni, si riapre il dibattito

Con la sentenza 2894 dell’11 aprile 2023, il tribunale di Milano torna sul tema del principio della compensatio lucri cum damno, e sul principio indennitario, ponendosi in aperto e dichiarato contrasto con quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, che aveva negato la possibilità di cumulo tra indennizzo e risarcimento - PRIMA PARTE

Polizza infortuni, si riapre il dibattito hp_vert_img
In tempi in cui il sostegno alla salute costituisce un’esigenza (o l’esigenza) sociale primaria, il ruolo delle assicurazioni assume, almeno potenzialmente, un ruolo centrale nella costruzione di un sistema di welfare privato che consenta di affiancare il sistema pubblico e mutualizzare rischi, costi e perdite. Le polizze di protezione della persona potrebbero/dovrebbero dunque conoscere periodi di nuovo sviluppo e successo proprio nel campo della tutela degli eventi della vita e della salute, con particolare riferimento alla non autosufficienza e alle gravi malattie, anche se derivanti da infortunio. Tali forme di copertura possono rientrare tanto in programmi di protezione propri del ramo vita quanto del ramo danni, a seconda delle diverse modalità di gestione del rapporto contrattuale e di erogazione della prestazione, al ricorrere dell’evento dedotto in polizza. 
Manca tuttavia, nel nostro ordinamento, una disciplina specificamente dedicata alle assicurazioni della persona (a differenza di quel che avviene in Francia, con les assurances des personnes): per tale ragione la regolazione civilistica dei relativi rapporti contrattuali è per lo più rimessa alle norme pattizie, lasciando talvolta aperti alcuni dubbi interpretativi e applicativi.

NATURA INDENNITARIA?
La polizza infortuni, in particolare, risulta frequentemente al centro di accesi dibattiti che partono dall’esigenza di risolvere alcune questioni teoriche di fondo e finiscono per implicare ricadute pratiche di enorme importanza, a maggior ragione in considerazione della rilevante diffusione di quei contratti. 
Si pensi al delicatissimo tema afferente al dubbio circa la riconduzione delle infezioni nell’ambito delle malattie (come parrebbe doversi affermare) o degli infortuni (come taluno ha invece voluto sostenere, specie in occasione del Covid-19 e per effetto della sua qualificazione infortunistica avvenuta, nel contesto della tutela Inail, durante la legislazione emergenziale con l’introduzione dell’articolo 42 del dl 18/2020). Ma quella che periodicamente ritorna sugli scudi è una questione di primaria importanza e attiene alla natura, indennitaria o meno, della polizza infortuni. L’argomento è pregno di implicazioni operative e incide, tra l’altro, sulla soluzione al quesito afferente alla possibilità di cumulare l’indennizzo assicurativo con il risarcimento civilistico, ogni qualvolta l’infortunio sia ascrivibile alla responsabilità di un terzo o, al contrario, di assoggettare tale indennizzo alla regola della compensatio lucri cum damno, defalcandolo da quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno. 

IL VALORE VITA E IL VALORE SALUTE
Il fatto che le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 12565 del 22 maggio 2018 (che, nella specie, si sono pronunciate sul caso Ustica e sul risarcimento del danno da perdita dell’aeromobile), abbiano pacificamente ritenuto applicabile il principio della compensatio (e più in generale quello indennitario) alle prestazioni assicurative del ramo danni non integra una risposta di per sé risolutiva né appagante, dal momento che la particolarissima natura della polizza infortuni (della persona…) non consente troppo facili assimilazioni al modello di riferimento delle garanzie danni, certamente indennitario ma ordinariamente pensato per la copertura dei danni a cose o a patrimoni. 
Diverso è l’interesse protetto nei contratti infortuni, che tutelano il valore vita (se si tratta di infortuni mortali) o il valore salute (quando si parla di lesioni). Valori che, almeno quando si tratta delle componenti non patrimoniali del danno derivante dalla loro perdita o compromissione, non sono di per sé traducibili in corrispettivi monetari certi o di mercato, e sono invece agganciati a valutazioni necessariamente convenzionali, tese a consentire in via preventiva una misura della loro quantificazione economica, evitando che il ricorso al puro metodo equitativo trasmodi in un arbitrio decisionale variabile, di caso in caso. Tali convenzioni possono avere valore normativo (o paranormativo), quando espresse in criteri destinati a essere applicati dai giudici nella generalità dei casi sottoposti al loro vaglio (si pensi a criteri di risarcimento previsti dagli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, o a quelli di fonte giurisprudenziale elaborati dagli Osservatori dei principali distretti giudiziari). Ma possono anche riposare su più ristretti accordi privati, nell’ambito dei quali il valore del danno alla persona può essere concordato liberamente dalle parti, onde prestabilirne la quantificazione ed evitare conflitti al momento della sua eventuale liquidazione. 

L’INFORTUNIO NON È UN DANNO A COSE
È quest’ultima la strada seguita dalle polizze infortuni, le quali, peraltro, difficilmente qualificano in modo preciso la natura del rischio (e del danno) che intendono coprire: si parla a seconda dei casi di invalidità (permanente) indipendente dalla capacità di attendere alle proprie attività professionali, di incapacità lavorativa generica o di incapacità specifica al lavoro (in tale ultimo caso il danno assume anche, e forse solo, evidenti connotazioni patrimoniali). Quale che sia la (vaga) definizione del danno che si vuole indennizzare non vi è dubbio che, al di fuori del caso in cui si parla delle spese di cura, l’infortunio (sia esso mortale o da lesione) ben difficilmente può essere assimilato a un danno a cose (o a patrimoni), a un danno cioè che, proprio in relazione alla sua agevole misurazione monetaria, sembra costituire l’architrave su cui poggia il principio indennitario. 

COME FUNZIONA LA PROTEZIONE ASSICURATIVA 
Tale principio, è bene ricordarlo, secondo l’opinione prevalente di ordine pubblico (e perciò inderogabile), impedisce che una copertura assicurativa del ramo danni possa arricchire l’assicurato, ponendolo in una situazione migliorativa rispetto a quella in cui si trovava prima di subire il danno. Per tale ragione la disciplina assicurativa esclude, ad esempio, che l’indennizzo possa essere convenuto in misura superiore al valore della cosa danneggiata al momento del sinistro (art. 1909 del Codice civile) o che in presenza di due o più polizze l’assicurato possa percepire indennità complessivamente eccedenti la misura del danno risarcibile (art. 1910 c.c.). 
E, almeno secondo una certa dottrina, giustificherebbe la surrogazione dell’assicuratore (art. 1916 c.c.) negli eventuali diritti risarcitori dell’assicurato verso il terzo responsabile, evitando la possibilità di cumulo di risarcimento e indennizzo di polizza. Insomma, la protezione assicurativa dovrebbe consentire all’assicurato di ottenere, nella più favorevole delle ipotesi, un indennizzo pari al valore del risarcimento civilistico, e non invece di avvantaggiarsi, conseguendo una liquidazione superiore al danno effettivamente patito. Così, in una polizza furto e incendio, un veicolo dal valore (esemplificativo) di 20mila euro non potrebbe mai essere assicurato per 50mila euro né comunque quell’importo potrebbe essere pagato in caso di sinistro. Nemmeno nel caso in cui l’assicurato, pur pagando più premi, avesse stipulato più polizze sul medesimo rischio, il cui valore complessivo superasse il valore del danno civilistico.
Il principio in questione, certamente applicabile al ramo danni (a cose), non entra invece in linea di conto quando si parla del ramo vita, nell’ambito del quale il programma previdenziale di protezione al ricorrere di determinati eventi della vita è scelto dall’assicurato in funzione delle proprie aspettative di sostegno (sempre che l’impresa assicurativa sia disponibile ad accettare di prendersi in carico il relativo rischio e dunque ad assecondare quel programma previdenziale). 

CONTRATTI SOCIALMENTE TIPICI
Ora, tornando alle polizze infortuni, si tratta di contratti che la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 5119 del 10 aprile 2002, non ha esitato a definire come “socialmente tipici” e tali, dunque, da condividere alcuni elementi strutturali di base cristallizzatisi, nel corso del tempo, nella prassi assicurativa. Proprio la disamina di tale prassi ci restituisce alcuni elementi certi e incrollabili, tra i quali il fatto che il valore dell’indennità è sempre liberamente fissato dalle parti, in base (proprio) all’aspettativa di sostegno in caso di sinistro; e dunque in modo sostanzialmente analogo a quanto avviene nel ramo vita. In nessun caso si fa riferimento al principio indennitario o alla misura del danno civilisticamente risarcibile: si tratta del resto di valutazioni afferenti al valore salute o al valore vita, insuscettibili, lo abbiamo visto, di esser quantificate in termini (chimericamente) esatti in base a riferimenti uniformi e socialmente riconosciuti. Ciò almeno nella maggior parte dei casi, non potendosi escludere che una data polizza infortuni sia dichiaratamente riferita al valore normativo (o paranormativo) del danno alla salute, così come stabilito dalle tabelle di legge o dagli indici pretori, assoggettandosi così, per libera scelta negoziale delle parti, ai limiti contenitivi posti dal principio indennitario.
In definitiva, vuoi per la natura del danno, vuoi per l’aspettativa di sostegno che quel contratto vuol presidiare, vuoi per ciò che tralatiziamente avviene nella prassi, il contratto di assicurazione sugli infortuni sembrerebbe sfuggire ai legacci del principio indennitario, lasciando alle parti la libertà di stabilire a loro piacimento il quantum della prestazione attesa (e, di conseguenza, del corrispettivo in termini di premio).

IL CUMULO TRA INDENNIZZO E RISARCIMENTO
Non solo, tale contratto consentirebbe pacificamente la possibilità di cumulare l’indennizzo assicurativo con il risarcimento dovuto dal terzo responsabile nel caso in cui l’infortunio sia derivato da un fatto illecito altrui, come confermato dal fatto che la stragrande maggioranza delle polizze infortuni prevedono la rinuncia alla surrogazione da parte dell’assicuratore: rinuncia che sembrerebbe lasciar libero l’assicurato di agire, dopo aver percepito l’indennizzo assicurativo, contro l’autore del danno al fine di ottenere il risarcimento del danno civilistico, che andrebbe così a sommarsi a quanto liquidato dalla compagnia assicurativa. Il condizionale è però d’obbligo, perché la Cassazione non la pensa così: una celebre sentenza (13233 del 2014) ha sostenuto che il cumulo di indennizzo e risarcimento sarebbe vietato, proprio in quanto contrario al cosiddetto principio indennitario. E, più in generale, ha predicato che tale principio si debba applicare indefettibilmente alle coperture degli infortuni non mortali; non invece a quelli mortali, assimilabili per disciplina alle assicurazioni sulla vita (e perciò non assoggettati al rispetto del principio indennitario ma informati da una causa previdenziale che lascia le parti libere di fissare la misura della prestazione attesa in caso di sinistro).
Numerose sono le obiezioni (fondatamente) opponibili a tal modo di ragionare. Non foss’altro per il fatto che affermare la necessaria applicazione del principio indennitario a tali polizze significherebbe dunque non soltanto escludere il cumulo tra risarcimento e indennizzo ma anche, e più radicalmente, contestarne la validità ogni qualvolta la meccanica contrattuale di liquidazione convenzionale degli indennizzi conduca a valori superiori al risarcimento civilistico.
È condividendo tali perplessità, sul piano del buon senso, che il tribunale di Milano ha tratto dal caso oggetto di decisione il movente per confezionare una sentenza volutamente in controtendenza rispetto a quanto predicato dalla Cassazione, attraverso una serie di argomentazioni giuridiche piuttosto articolate e, nel complesso, condivisibili. 

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