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Le Pmi nella tempesta perfetta

Se da un lato la crisi ha distrutto ricchezza, dall’altro ha fatto la selezione tra le aziende italiane, rafforzando quelle resilienti e mostrando l’unica via per lo sviluppo: un cambiamento culturale che passa dalla governance e da nuovi strumenti per il credito

Watermark vert
Negli anni della crisi, cioè dal 2008 a oggi, un quinto delle piccole e medie imprese italiane ha chiuso per fallimento, liquidazione volontaria oppure concordato: si tratta di circa 6000 aziende svanite nel nulla. Per le restanti, in media, si sono registrati crolli del fatturato, della produttività e del margine operativo lordo, calato di un terzo. Il Roe, ovvero l'indice di redditività netta, si è contratto da una media del 13% nel 2007 a un 7% del 2013. Per ora è il caso di fermarsi qui. Questi dati, se ci fossero stati dei dubbi, rappresentano la cruda e fredda realtà di un Paese che sta per affrontare l'ottavo anno consecutivo di crisi (tra finanziaria, economica, occupazionale, sistema-Paese). Per il 2015, si parla di un aumento del Pil che potrà andare dal +0,3% al +0,6%, per spiccare il volo nel 2016 con un incoraggiante +0,9%: "noccioline", le ha definite Valerio Momoni, direttore marketing di Cerved group, giovedì scorso, 11 dicembre, in occasione della presentazione della ricerca sullo stato delle Pmi, nel corso del workshop organizzato a Milano da Coface. L'assicurazione dei crediti e la banca: la value proposition e i vantaggi per gli istituti di credito (questo il titolo dell'incontro) è stato un pomeriggio ricco di interventi, in cui non si è tanto discusso di polizze, quanto dei problemi del settore delle piccole e medie imprese italiane, alla presenza del mondo del credito, anche internazionale, delle aziende e, ovviamente, del settore assicurativo.
Un confronto schietto, che ha messo in luce criticità dalle quali sembra oggettivamente molto difficile riprendersi. La scarsa competitività nell'export, la crisi dei consumi interni, la stretta creditizia, la dipendenza dalle banche sono solo alcuni degli ostacoli sulla strada delle Pmi: difficile per molte riuscire a superarli tutti, in queste condizioni.

Una doppia stretta per il credito
Il Rapporto Pmi 2014 del Cerved ha analizzato il settore molto approfonditamente, illustrandone le problematiche (tante), ma anche i punti fermi da cui dover ripartire. Le aziende che fatturano dai due ai 50 milioni di euro, in Italia rappresentano il 12% della ricchezza nazionale e occupano il 48% della forza lavoro. Su base europea, l'Italia ha il primato di Pmi, e da sola rappresenta il 20% del totale. In questi anni (2008-2013), quella italiana è stata l'unica economia che non ha intercettato la ripresa e che ha perso il 10% del proprio Pil. Le Pmi hanno sofferto di un crollo della domanda aggregata e di una doppia stretta al credito: sia finanziario, sia commerciale. Le banche, cioè, hanno smesso di erogare credito, ma non a tutte le imprese, solo alle più rischiose: quelle meno attrezzate, più scoperte. Le conseguenze sono state devastanti: oltre ai dati che abbiamo già visto, la realtà di oggi presenta meno aziende che nascono e meno che resistono dopo i primi tre anni di attività.

A rischio 71 miliardi di euro di debito
Secondo Cerved, da qui al 2016, 24 mila aziende sono a rischio default, corrispondenti a 71 miliardi di debiti accumulati, di cui il 98% è credito bancario: cifre difficili da digerire. Tuttavia (finalmente) alcuni dati mostrano una tendenza che si potrebbe definire di metodo, se non culturale. Per tante aziende che rischiano la chiusura ce ne sono più del doppio (77 mila) che sono invece pronte per intercettare la ripresa; da tre trimestri consecutivi, le liquidazioni volontarie sono in calo (torna la fiducia); il capitale netto è cresciuto del 30% (gli imprenditori investono per capitalizzare e rafforzare l'impresa); 3500 aziende, infine, hanno più che raddoppiato il fatturato e sono soprattutto giovani società che fanno innovazione. "La crisi - ha spiegato Momoni di Cerved - ha accelerato una sorta di selezione naturale; in media le Pmi, oggi, sono meno rischiose e più consapevoli, tanto che molte chiedono un rating di affidabilità per poter interloquire meglio con le banche e le assicurazioni: è un passaggio culturale che potrebbe portare presto a una diffusione più massiccia dei minibond (finora solo 70 emissioni, ndr)".

La guida per l'export
Un cambio di mentalità delle Pmi aiuterà anche lo sviluppo dell'assicurazione del credito, che, a sua volta, sarà da ulteriore garanzia per gli istituti bancari, mai come oggi in cerca di investimenti solidi e affidabili. Se per le grandi aziende la credit insurance è quasi un obbligo, le micro, piccole e anche medie imprese non ne fanno l'uso che dovrebbero, soprattutto se si considera le rischiosità dell'internazionalizzazione, l'unica vera arma a disposizione delle Pmi per uscire dalla crisi.
"Le Pmi italiane, il cui 35% di bilancio è costituito da credito commerciale, non hanno solo bisogno di assicurazioni affidabili - ha commentato Ernesto De Martinis, country manager di Coface - ma anche di un supporto di risk management. I rischi evolvono sempre più velocemente e noi siamo in grado di monitorare 65 milioni di aziende nel mondo".
Le Pmi devono essere guidate per andare all'estero, da un lato perché sono meno preparate di quelle di altri Paesi, come la Francia o la Germania, dall'altro perché anche da parte dello Stato il supporto manca.
"Anche la distribuzione delle esportazioni italiane deve essere più diversificata", ha sostenuto Roberto Mancone, managing director global head of business products di Deutsche Bank. Attualmente la meta principale è l'Europa, la Germania in particolare, ma i veri obiettivi devono essere altri: i Paesi emergenti, dell'Asia e del Sud America. "Le Pmi tedesche - ha continuato Mancone - in Germania fanno rete e lavorano su economie di scala su base distrettuale: è all'estero che si diversificano e si fanno concorrenza. L'Italia non lo fa, anche perché nel nostro Paese ci sono troppe micro imprese che non hanno i mezzi per competere e avere visibilità". Come in tutti i settori industriali, compreso quello bancario e assicurativo, comunque, si sta procedendo verso un consolidamento. Superata la fase di selezione, le aziende italiane resilienti, innovative e che guardano all'internazionalizzazione attueranno processi di fusione e aggregazioni: dinamiche che porteranno, per esempio, le banche a costruire pacchetti diversificati di gruppi omogenei di aziende solide con una governance evoluta e quindi attrattive per il mercato obbligazionario dei minibond.

Cedere sovranità è fare sistema
In questa prospettiva rientra anche l'assicurazione che potrà essere sempre di più uno strumento di sviluppo. In certe realtà già lo è, come ha confermato Stefano Depoliti, manager international department di Unipol Banca: "la nostra mission è formare la nostra clientela small e consigliare anche una polizza sul credito; tuttavia i driver per lo sviluppo dell'assicurazione devono venire anche dal contesto: dalle associazioni di categoria, dalle banche che concedono credito, dagli enti territoriali".
Si tratta di attivare un circolo virtuoso che deve vedere la collaborazione di tutti i settori: è quello che significa davvero l'abusata espressione fare sistema, ovvero creare le condizioni migliori per lo sviluppo. "Tra banca, società di factoring, assicurazioni e impresa - ha chiosato Sandro Balliano di Duferco, holding italiana di siderurgia ed engineering - deve esserci collaborazione, perché dal 2008 è cambiato tutto: ogni decisione si ripercuote a livello globale. È necessario che ogni attore della filiera accetti una piccola cessione di sovranità: solo così si può creare mercato e competitività".

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