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Gravi rischi per la salute: le sostanze PFA

L’utilizzo di prodotti chimici che contengono elementi perfluoro alchilici è diffuso in moltissimi settori industriali. Trattandosi di principi con elevata persistenza nell’ambiente la minaccia per l’uomo è molto concreta

Gravi rischi per la salute: le sostanze PFA hp_vert_img
Prima parte 

Lo scorso 3 dicembre 2020, il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo ha promulgato un decreto, che entrerà in vigore il 31 dicembre 2022, che vieta l’uso di imballaggi alimentari contenenti sostanze perfluoro-alchiliche, conosciute come PFAs. Lo stato di New York è il terzo negli Stati Uniti a vietarne l’uso negli imballaggi alimentari, dopo lo Stato di Washington e il Maine. La sigla PFA indica le sostanze perfluoro alchiliche, ovvero acidi perfluoroacrilici o catene alchiliche idrofobiche fluorurate. Si tratta di una famiglia di composti chimici organici o fluorocarburi polimerici, costituiti da una catena di atomi di carbonio che termina con un gruppo idrofilico, in cui il carbonio, invece che all’idrogeno (come accade negli idrocarburi), si lega al fluoro. 
In poche parole, i PFAs costituiscono un tipo di materia plastica dotata di caratteristiche speciali, perché resistente a quasi tutti i prodotti chimici e alle alte temperature (è ignifuga) e con un basso coefficiente di attrito. 
Ne esistono oltre 4.500 tipi: le classi di PFA più diffuse sono il PFOA (acido perfluoro-ottanoico) e il PFOS (perfluoro-ottano-sulfonato), usato nelle schiume antincendio. Sia i PFOA che i PFOS (caratterizzati da 8 atomi di carbonio, e quindi definiti “a catena lunga”) hanno un’elevata persistenza nell’ambiente e vivono praticamente in eterno, mentre altri PFAs definiti a catena corta (con 4-6 atomi di carbonio) hanno una persistenza ridotta, misurabile in alcune decine di giorni.

Un uso diffuso ha creato un mercato florido
Sviluppati durante gli anni ‘40, questi materiali sono stati progettati per resistere all’acqua, agli olii, alle macchie e impedire al cibo di attaccarsi ai tegami (il più noto prodotto è forse il Teflon®). Sono inoltre usati nella filiera di concia delle pelli, nel trattamento dei tappeti, nella produzione di carta e del cartone per uso alimentare (l’esempio più citato è forse il cartone per la pizza) e nell’abbigliamento tecnico (come il Gore-Tex®), proprio per le loro caratteristiche oleo e idrorepellenti. 
Vengono utilizzati per la costruzione dei tubi e raccordi per veicolare prodotti chimici aggressivi e, per la loro resistenza alla corrosione, anche nella costruzione di impianti chimici. Ma i campi di utilizzo sono praticamente infiniti e questi composti alimentano un mercato enorme: già nel 2013, secondo Fluoro Council (una branca dell’American Chemistry Council che si occupa esclusivamente del settore PFA), le vendite hanno toccato i 13,9 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti. 
Insomma, i PFAs sono ormai parte della quotidianità, perché presenti non solo negli imballaggi, ma anche negli utensili per la cucina, nei cosmetici, nei vestiti, in molti rivestimenti, etc. etc.
Essendo praticamente impossibili da distruggere, se smaltiti impropriamente (dovremmo dire, illegalmente) nell’ambiente, i PFAs penetrano facilmente nelle falde acquifere e, attraverso l’acqua, raggiungono i campi e i prodotti agricoli, e perciò gli alimenti. 
Sono dunque presenti nelle risorse idriche di ogni paese e gli scienziati sono impegnati a studiare quali livelli di concentrazione di queste sostanze siano realmente accettabili e quali siano i loro effetti sulla salute umana.

Lo studio delle patologie indotte
Oltre alla tendenza ad accumularsi nell’ambiente, questi composti persistono a lungo negli organismi viventi, dove risultano essere tossici ad alte concentrazioni. 
La loro concentrazione risulterebbe bioamplificata man mano che si sale lungo la catena alimentare, nella quale queste sostanze penetrano attraverso il suolo, la vegetazione, le coltivazioni e gli animali. La bioamplificazione avviene infatti quando gli organismi ai vertici della piramide alimentare ingeriscono quantità di inquinanti superiori a quelle diffuse nell’ambiente.
È stato dimostrato che PFOA e PFOS sono in grado di causare un’ampia gamma di effetti avversi e ciò desta una certa preoccupazione, proprio per la loro proprietà di accumularsi nell’organismo.
Non si tratta di effetti immediati: si ritiene però che la lunga esposizione possa causare l’insorgenza di tumori a reni e testicoli, lo sviluppo di malattie tiroidee, ipertensione gravidica e coliti ulcerose. 
Alcuni studi hanno ipotizzato una relazione tra le patologie fetali e gestazionali e la contaminazione da queste sostanze.
Non è certo una novità che la plastica sia ovunque e che i particolati microplastici e nanoplastici si formino attraverso la frammentazione e la disintegrazione dell’inquinamento da plastica. A causa delle sue piccole dimensioni, questo particolato si diffonde facilmente nell’atmosfera, può essere inalato o ingerito dagli esseri viventi ed è in grado di traslocare attraverso le cellule polmonari agli organi secondari, compresa la placenta. 
Per le loro caratteristiche di lunga durata e straordinaria diffusione, i PFAs risvegliano quindi antiche e mai sopite paure, agitando lo spettro dell’amianto, che dopo aver rappresentato la soluzione a tante esigenze si rivelò essere letale, un killer silenzioso che ancora oggi uccide migliaia di persone ogni anno. 

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