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Se le Tabelle non piacciono

Nonostante la questione dovrebbe ritenersi chiusa da tempo, continua a emergere da parte dei singoli tribunali la tendenza a eludere i parametri milanesi a favore di altri ritenuti più in linea con la propria interpretazione dei casi in giudizio

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Ci capita spesso di osservare, nella produzione giurisprudenziale della nostra epoca, provvedimenti contraddittori e, soprattutto, non coerenti fra loro dal punto di vista dell’applicazione pratica delle regole.
La giurisprudenza, certamente, può allinearsi a tesi anche difformi fra loro quando non vi siano dei pronunciamenti unitari da parte delle magistrature superiori (una sentenza resa dalle Sezioni Unite della suprema Corte di Cassazione), ad esempio come nel caso della compensatio lucri cum damno di cui abbiamo parlato di recente. In quel caso, il pronunciamento nomofilattico determina un obbligo per i giudici di merito di allinearsi ai dettami rilasciati.
Diversa cosa avviene, invece, quando le tesi, spesso contrapposte e disallineate, sul medesimo tema siano a loro volta sostenute dalla produzione giurisprudenziale anche delle corti superiori, che le legittimi seppure in conflitto con altre.
Quest’ultima situazione genera nel nostro ordinamento una realtà incongruente e non prevedibile, perché la decisione finale dipenderà da quale, fra le varie tesi proposte, il giudice di merito intenderà aderire.

Mancanza di condivisione
Entrando nel merito specifico di quanto vogliamo oggi affrontare, il tema idoneo a esemplificare quanto sopra può essere certamente quello legato alla mancata applicazione da parte di alcuni tribunali dello Stato, nella liquidazione del danno alla persona, delle cosiddette tabelle milanesi alle quali invece la suprema corte da tempo ha assegnato il ruolo di unico strumento equitativo e congruo per la liquidazione del danno.
Accade, come sappiamo, che alcuni tribunali dello Stato (Roma e Venezia innanzitutto) rifiutino di applicare le tabelle milanesi le quali, non tanto per una patente riconosciuta di perfezione o di assoluta efficacia equitativa, appaiono in verità lo strumento più omogeneo adottato nel nostro ordinamento, ciò ancor prima che le note sentenze della Cassazione del 2011 (numero 12.408 e 14.401) le elevassero a criterio nazionale
La questione, per certi aspetti paradossale, risiede nel fatto che le stesse decisioni emanate dai tribunali dissenzienti spesso vengono riformate in appello proprio sotto il profilo dell’erronea applicazione di un criterio di calcolo non uniformatosi a quello milanese.
È quanto avviene nel caso che vogliamo oggi narrare in occasione del quale la corte d’appello di Roma (sentenza numero 1775 del 21 marzo 2018) ha corretto la decisione già emanata dal tribunale capitolino che aveva liquidato il danno alla salute conseguente a un errore sanitario utilizzando le tabelle di Roma anziché le omologhe e più note tabelle milanesi.

Un metro unico per lo stesso danno
Uscendo da un contesto di quella che appare per certi versi una differenziazione campanilistica, è anche vero che la forte distinzione, specie in termini numerici, tra la tabella romana e quella milanese origina da una visione diversa dei sistemi risarcitori e delle modalità di compensazione del danno alla salute.
È altrettanto vero, però, che, come ormai noto a tutti, la Cassazione civile da tempo (certamente dalla sentenza numero 12.408 del 2011) ha elevato la tabella emanata dai giudici meneghini a sistema para-normativo nazionale di liquidazione del danno in argomento.
Proprio partendo da questo presupposto, la corte d’appello di Roma ricorda che la giurisprudenza di legittimità ha affrontato compiutamente il tema della sperequazione risarcitoria nell’ambito della liquidazione del danno non patrimoniale evidenziata tra i vari uffici giudiziari italiani nel corso del tempo, ponendo fine alle ipotesi di arbitrio con la già citata sentenza 12.408 del 2011.
Invero con tale decisione i giudici hanno stabilito che “poiché l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di visioni normative, vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto”.
Osserva la corte d’appello di Roma che “è intollerabile e iniquo, secondo il giudice di legittimità, che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché le relative controversie vengano decise da diversi uffici giudiziari”.

Le differenze sono sensibili
Con parole che appaiono assai definitive, la corte capitolina ribadisce che “le tabelle del tribunale di Roma non possono essere quindi applicate al caso di specie, stante l’esigenza di assicurare l’uniformità delle liquidazioni in tutto il territorio nazionale, così come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità”.
Nel caso di specie, giusto per rendere in moneta gli effetti pratici di questa annosa diatriba, la somma liquidata per differenza in aggiunta a quanto già concesso dal tribunale il primo grado ammonta a oltre euro 35mila (con un incremento del 40% circa), con evidente valorizzazione in accrescimento del compenso dovuto alla vittima dell’errore clinico indagato dai giudici.
Dovremmo poter sperare che questa come detto annosa controversia possa prima o poi trovare un approdo condiviso, ancor prima che a ciò provveda il legislatore con la emanazione delle note tabelle di liquidazione per i sinistri stradali e sanitari gravi ex articolo 138 del Codice delle Assicurazioni private, provvedimento che oramai stiamo aspettando da oltre 13 anni.
In tale attesa, tuttavia, la realtà attuale, caratterizzata da una differenziazione così evidente di quantificazione dei danni rispetto ai due metodi di calcolo per lesioni identiche, non pare fornire un riscontro positivo e soddisfacente a quello che è il servizio giustizia che ci proponiamo di offrire all’utenza esercitando, ognuno nel suo ruolo, la funzione giurisdizionale.

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