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Più forza alla clausola di esclusione

La condizione di non risarcibilità in ipotesi di dolo o colpa grave dell’assicurato è un vincolo più solido se si specifica che l’onere probatorio va a carico dell’assicurato

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È prassi inserire all’interno delle “Condizioni generali di assicurazione” una clausola apposita che escluda l’indennizzabilità di un sinistro, qualora questo sia imputabile a un comportamento doloso dell’assicurato o, quantomeno, inficiato da colpa grave. Infatti è bene ricordare che, in assenza di specifica clausola derogatoria, secondo i principi generali desumibili dall’art. 1917 C.C., l’assicurazione è obbligata a tenere indenne l’assicurato da quanto questi dovrà pagare a seguito del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione. Sono espressamente esclusi da questo regime unicamente i fatti accaduti a causa di dolo dell’assicurato. Affinché i fatti avvenuti per colpa grave dell’assicurato siano anch’essi esenti da indennizzabilità, è usuale pattuire all’interno delle condizioni generali di assicurazione. una specifica clausola che limiti la garanzia in casi di colpa grave dell’assicurato. È orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità (Cass. n. 4118/1995, nonché Cass. n. 5273/2008, n. 7766/2010 e n. 4799/2013) ritenere valide quelle specifiche pattuizioni che, circoscrivendo i confini delimitativi dell’oggetto del contratto assicurativo, prevedono l’esclusione del diritto alla liquidazione in caso di responsabilità dell’assicurato per colpa grave.

La questione della prova “negativa”
Sul punto, la Suprema Corte si è recentemente pronunciata (Cass. Civ. ord. 1° febbraio 2018, n. 2527) in merito alla validità di una clausola di esclusione della responsabilità in caso di dolo e di colpa grave, contenuta all’interno delle condizioni generali di assicurazione, avendo riguardo alla tematica dell’onere probatorio negativo a carico dell’assicurato. Nel caso di specie, a seguito di un sinistro verificatosi a causa di un incendio, l’assicurata chiedeva il risarcimento dei danni subiti alla propria compagnia assicuratrice, la quale si costituiva rigettando la domanda di parte attrice e indicando, quale causa impeditiva della liquidazione dell’indennizzo, il dolo o la colpa grave dell’assicurato. La domanda attorea veniva rigettata in entrambi i gradi, motivo per cui veniva proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione. Secondo il ricorrente, la motivazione della sentenza di secondo grado appariva “incongrua e comunque lesiva del principio desumibile dall’art. 2697 c.c., in base al quale spetta a colui che voglia far valere un diritto in giudizio l’onere di fornire la prova dei cd. fatti costitutivi del medesimo diritto mentre è a carico della controparte l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere”. Alla luce di dette considerazioni, quindi, secondo la prospettazione della ricorrente, si sarebbe dovuta considerare come vessatoria la clausola di cui all’art. 24 delle condizioni generali di assicurazione (in quanto, in caso di apertura di una procedura giudiziaria sulla causa del sinistro, l’onere di dimostrare che l’evento dannoso non fosse stato determinato da fatto doloso o gravemente colposo avrebbe gravato sull’assicurato). 

L’azienda non è un consumatore
La Cassazione ha respinto la richiesta dell’assicurata chiarendo che l’onere probatorio gravante, ai sensi dell’art. 2697 c. c., su chi intende far valere in giudizio un diritto non subisce alcuna deroga neanche nel caso in cui vadano dimostrati fatti negativi, dal momento che la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, dovendo questo gravare sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo. Tuttavia, continua la Corte, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Cass. 14/07/2000, 9385, Cass. 11/01/2007, n. 384; Cass. 13/06/2013, n. 14854).
Peraltro, altrettanto correttamente la Corte di Cassazione ha escluso che la ricorrente potesse rientrare nella categoria del consumatore, avendo la predetta stipulato il contratto di assicurazione nella sua qualità di titolare di un esercizio commerciale e a tutela della merce che vendeva, sicché non aveva agito all’evidenza per scopi estranei alla sua attività d’impresa, così attenendosi la Corte territoriale ai principi espressi dalla Corte di Cassazione e secondo cui, in tema di contratti del consumatore, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela di cui al vecchio testo dell’art. 1469-bis C.C. (ora art. 33 Codice del consumo, approvato con d.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), la qualifica di consumatore spetta solo alle persone fisiche, e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice consumatore soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività (un principio che, forse, è sfuggito anche alla Suprema Corte chiamata a interpretare, in altri casi, contratti contenenti una clausola claims made).
In conclusione, è opportuno rilevare che ogni volta che la compagnia assicuratrice inserirà una clausola di esclusione della responsabilità civile per colpa grave dell’assicurato, potrebbe essere congeniale, ai fini di una maggiore solidità ed efficienza dell’esclusione, inserire all’interno delle condizioni generali di assicurazione. una specifica menzione concernente l’onere della prova a carico dell’assicurato. 

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