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La lingua italiana non è un gioco

Il vocabolario nazionale sconta la mescolanza di tante lingue locali che attribuiscono accezioni differenti allo stesso termine. Se ciò dà luogo a fraintendimenti nel quotidiano, si pensi ai rischi di sbagliare un termine nel testo di legge ("Gelli")

Watermark vert
Uno dei più amati attori comici dell’era contemporanea, Paolo Villaggio, sosteneva, in uno dei suoi film meno noti e più teneri, che “la lingua italiana è una lingua terribile”.
Alludeva non solo alla difficoltà di articolare correttamente un pensiero o una espressione, ma soprattutto alle grandi diversità sintattiche della nostra terminologia, usata tanto nel linguaggio corrente quanto in quello tecnico, spesso fonte di equivoci ed episodi (appunto più o meno comici, come nel suo caso) generati proprio dall’attribuzione di un significato diverso a quello pensato e forse anche sperato.
Mi sono trovato di recente a riscoprire le conseguenze dell’ampiezza terminologica del nostro vocabolario nazionale, subendo una cocente sconfitta a un gioco linguistico in cui coinvolgo spesso (costringo, per la verità) mia figlia Alexandra, di anni tredici, con il malcelato auspicio che ciò agevoli la sua conoscenza e la sua ampiezza lessicale.

I limiti della conoscenza
È un gioco più o meno noto a varie latitudini e al quale immagino sia conferita in ogni luogo un nome diverso. In casa noi lo chiamiamo “asino”, nome legato alla condizione che si attribuisce al soccombente.
Trattasi di mettere in sequenza, ciascuno al suo turno, una serie di lettere dell’alfabeto fino a comporre una parola del nostro vocabolario di senso compiuto. Il giocatore che per primo non è in grado di aggiungere una lettera alla parola che si è nel frattempo formata, perde la manche e accumula punteggio negativo fino all’inevitabile sconfitta e all’attribuzione della qualifica di asino nel ludibrio generale.
Naturalmente il giocatore di turno può anche barare nel senso di scegliere una lettera che in realtà non vada a comporre alcuna parola sensata. Il giocatore del turno successivo potrà dubitare della correttezza della parola e quindi smascherare il rivale.
Arrivata a un punto determinante della partita, mia figlia propose la parola “lumpac”, aggiungendo la “C” finale. Essendo di turno, dopo lungo pensare, io spesi la mia chance sentenziando “dubito!”, negando quindi che l’espressione portasse ad una parola di senso compiuto e sfidando così mia figlia. La stessa, con recitato sdegno per la sfida che le avevo lanciato, con assoluta certezza mi ribadì il termine al quale aveva pensato: “lumpaccioso”.
Ne seguì, dopo un primo sconcerto, l’ilare canzonatura da parte del sottoscritto, rivestita sempre di bonaria condiscendenza verso l’unico discendente, per di più femmina.
Solo le vibranti proteste di mia figlia mi portarono a verificare, sull’immancabile depositario della scienza moderna, Google, che un temine così noto esiste davvero (pare sia una espressione gergale siciliana, non vietata dal regolamento del gioco) e che significa “persona molto antipatica o ottusa”.
Ne seguì la inevitabile contro canzonatura di mia figlia, meritata e inappuntabile, proprio perché avevo dimenticato l’antico monito dell’amato attore di non sottovalutare mai i tanti inghippi della lingua italiana.

Se l’errore è nel testo di legge
Questa lunga digressione e premessa serve ad introdurre una riflessione più seria sull’uso della terminologia appropriata non solo nel mondo ludico e adolescenziale, ma in quello che auspichiamo più serio e professionale della funzione legislativa.
La mente corre (come potrebbe essere altrimenti ?) ancora una volta a ciò che occupa le nostre scrivanie da cinque mesi o più, almeno dal momento in cui il ddl Gelli ha visto la sorte volgersi al favore dell’Assemblea (era l’ottobre scorso), con una calendarizzazione in Parlamento che poi l’ha portata a divenire provvedimento dello Stato, riversato nella legge n. 24 dell’8 marzo 2017.
Una delle norme cogenti del testo di legge approvato riporta una espressione lessicale che, se interpretata per il significato tecnico della parola, potrebbe generare scompensi assicurativi di non poco conto.
Alludiamo all’art. 11 della legge n. 24/2017, che impone l’obbligo temporale della copertura assicurativa, con previsione di una retroattività anche “per i fatti accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo”, con la precisazione che tali fatti siano “denunciati” all’impresa di assicurazione durante la vigenza della polizza.
Ebbene, un qualunque esordiente al corso di diritto assicurativo potrà darci conferma che per denuncia in gergo tecnico, si intende l’atto unilaterale che l’assicurato compie verso il proprio assicuratore per avvisarlo di un sinistro a termini di polizza, ma non corrisponde in ogni caso alla “prima richiesta danni” avanzata dal danneggiato contro l’assicurato (che ne è anzi l’antecedente cronologico), atto che, a sua volta, è l’elemento di discrimine della clausola claims made che la legge intende regolamentare.  

Dubitare del significato unico
Non c’è lo spazio per argomentare sulla diversa interpretabilità che, con sforzo di bonaria comprensione, si potrà in futuro dare alla locuzione per evitare che la stessa (ove interpretata nel contesto ben diverso di una (deeming clause) possa destabilizzare il mercato assicurativo rendendolo non compatibile al rischio sanitario così inquadrato per legge.
Il timore è che tale grave imprecisione, seppure salificata da una bonaria interpretazione applicativa della norma, generi un contenzioso giudiziale del quale non se ne sentiva il bisogno.
Resta così solo lo spazio per una riflessione sulla vicenda che mi ha accomunato all’estensore di questo critico passaggio normativo: una maggior prudenza (che è sempre fonte di quell’attenzione necessaria nell’uso della parola) avrebbe evitato a entrambi la sorte di una sconfitta lessicale che, quanto meno nel mio caso, ebbe il limitato esito dell’attribuzione di un appellativo dal senso palese di una cocente disfatta.

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