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Le conseguenze giuridiche di una diagnosi errata

Una recente sentenza del Tribunale di Milano ricostruisce un caso emblematico di omessa diagnosi di un tumore per cui è stato chiesto risarcimento

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Torniamo a parlare di responsabilità sanitaria, del medico e della struttura, e lo facciamo con riguardo a quella che forse è la fattispecie scientifica e giuridica più complessa nel panorama delle situazioni che portano alla conclamazione della colpa medica: quella dell’errore diagnostico oncologico.

L’occasione ci è fornita da una bella decisione (nel senso della ricchezza giuridica e dell’esposizione lessicale) resa dalla prima sezione del tribunale di Milano lo scorso 28 agosto (n.9830/2016, GU Dott.ssa Martina Flamini).

La questione storica si poneva nei termini più classici della causalità omissiva: un ritardo di quattro mesi nella valutazione di una patologia tumorale al seno di una giovane donna, in quale misura può avere determinato un aggravamento nella evoluzione della patologia? Che cosa si sarebbe potuto fare di più, e di meglio, se il radiologo convenuto in giudizio avesse verificato in occasione del primo controllo quello che poi fu palese nel secondo, svolto quattro mesi dopo?

Il perimetro del giudizio

Nella responsabilità omissiva in generale il giudice non deve accertare l’insorgenza di una patologia (che è insita nella vicenda stessa come autonoma), ma verificare se e in che misura l’accertamento tardivo di una diagnosi abbia aggravato il danno, nel senso che il brutto male, preso per tempo, poteva essere diversamente aggredito e con maggiore efficacia curativa.
Nel gergo giuridico questa ricostruzione “a posteriori” si definisce “giudizio controfattuale” per effetto del quale, il giudice (e il suo consulente medico legale) deve poter capire se e quanto il ritardo diagnostico abbia inciso sull’evoluzione di una patologia, così determinando, nel caso affermativo, il maggior danno che poteva essere evitato con una diagnosi corretta e tempestiva.

Con l’ausilio dei consulenti nominati dal tribunale, il giudice può, nel caso esaminato, giungere a una conclusione affermativa della colpa e del nesso eziologico con il maggior danno subito dalla paziente, perché “la progressione del tumore rappresenta il prodotto di un equilibrio tra l’aggressività delle cellule neoplastiche e la risposta dell’ospite: il volume del tumore e la velocità di crescita presentano una certa correlazione probabilistica con la sua aggressività e metastatizzazione”.

In verità, “la dimensione del tumore rappresenta uno dei fattori prognostici più sicuri poiché, quando il diametro della neoplasia è maggiore di 1,5 cm, esiste la probabilità che il carcinoma abbia formato metastasi, mentre, per tumori con diametro inferiore a 1 cm. la prognosi è assai più fausta, con una probabilità di sopravvivenza pari al 95%”.

Nel caso di specie, osserva il giudice, “il fibroadenoma, al 20/7/2009, appariva con un diametro di 22 mm (classificabile come stadio T 2)”, mentre “al 28/11/2009 la lesione aveva raggiunto un diametro di 3 cm. In soli quattro mesi (luglio-novembre) si è assistito a una stadiazione che da T2 passava a uno stadio patologico “pT3, ovvero di un tumore molto aggressivo, con indice di proliferazione elevato”.

Con un’analisi dell’evoluzione scientifica così sostenuta, dunque, il tribunale può affermare che “il ritardo diagnostico ha comportato una progressione della malattia, con ricaduta negativa in termini di trattamento chirurgico” e che certamente “una corretta e tempestiva diagnosi, eseguita in occasione del controllo del 20/7/2009, avrebbe consentito di intervenire tempestivamente, così evitando il progressivo aumento di dimensioni del tumore (giunto, dopo soli quattro mesi, al diametro di ben 3 cm)”.

Le ragioni del risarcimento
Il danno risarcibile non consiste ovviamente nella misura integrale degli effetti menomativi della patologia in sé, ma solo nella quota di danno da aggravamento che si sarebbe potuto evitare con una attenta diagnosi quattro mesi prima.

In particolare il giudice rileva che, a causa del ritardo, la giovane donna era stata costretta a ricorrere a un intervento demolitivo al seno molto più radicale di quello che sarebbe stato necessario con una tempestiva diagnosi.

La natura della patologia, e della particolare incidenza anche estetica ed esistenziale di tale intervento, che avrebbe potuto essere ben meno radicale dunque, determina, secondo il tribunale, il diritto della paziente a vedere risarcito il proprio danno non patrimoniale nella misura di 60 mila oltre al favore delle spese di lite.  





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