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Gli improbabili risvolti di un caso psichico

Il libro di Gennaro Giannini “Ricordi di un parafanghista – ovvero: il cadavere in oggetto” raccoglie un’ aneddotica che svela con ironia gli aspetti spesso più materialistici che romantici della professione avvocatesca: la storia di Concetta ne è un esempio

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È passato tempo dall’ultima volta che abbiamo letto e riportato su questo quotidiano un passo dell’esilarante libro del compianto avvocato e maestro Gennaro Giannini (Giuffrè 1997) e così, decidendo di riaprirlo, ci siamo imbattuti nel quinto capitolo, dal titolo “Concettina mon amour: un caso di danno psichico”.
Come sempre, la lettura di un passo di questa raccolta di memorie ci riempie di allegria e, insieme, di malinconia: allegria per la sapiente ironia con la quale l’autore sa raccontare se stesso e il suo mondo, malinconia nel leggere proprio le testimonianze di quel mondo che, ahinoi, non c’è più.
La storia è questa: in una serata fredda d’inverno, solo in studio e in procinto di andare a casa, Giannini ricevette un improbabile cliente, Salvatore il manovale, che raccontò in breve la storia della sofferenza della sua adorata moglie Concettina, la quale un giorno, mentre si trovava in casa, era stata colpita da un grosso calcinaccio staccatosi dal soffitto mentre operai maldestri stavano ristrutturando l’appartamento superiore.
Il punto è che Concettina venne colpita mentre “era assisa sul water a fare i suoi bisognini” e, a detta del marito, per lo shock era rimasta inibita dall’espletare le sue funzioni intestinali (per dirla col testo del libro, l’autore riferisce che Salvatore raccontò:”Avvocà, Concettina non caca cchiù!”).

“E guerra fu”

Ne seguì una trattativa serrata con l’assicuratore dell’impresa edile il quale, comprensibilmente, non manifestava alcuna apertura a riconoscere alcunché per tale “menomazione”, al di là della somma dovuta per la contusione alla spalla della povera Concettina (all’epoca circa 400 o 500.000 lire).
Racconta Giannini: “Come se non bastasse, mi accorsi che ogni volta che andavo a trattare la pratica, aumentava il numero dei funzionari liquidatori che assistevano al colloquio. Si davano di gomito, si strizzavano l’occhio e s’informavano: «E allora, la nostra Concettina, che fa? Caca o non caca?». Si divertivano come matti”.
Come reagisce un avvocato punto non tanto sull’orgoglio di una tesi giuridica disattesa, ma piuttosto di fronte a un caso che appare poco affidabile e sicuro? Ci risponde la storia narrata dal Giannini: con fantasia ed energia (“Volevano la guerra, e guerra fu”).
La causa che ne seguì è un altro spaccato di un mondo (i meandri austeri e marmorei del tribunale di Milano degli anni ottanta) fatto, in questo caso, di diritto e ironia, di gusto dell’aneddotica e di rispetto reciproco tra avvocati e magistrati. Vale la pena raccontare qualche passaggio con le parole dell’autore:
“Il presidente della sezione alla quale la causa fu affidata parve molto divertito e interessato alla vicenda. Trattenne la causa e, alla prima udienza, dispose una consulenza tecnica medico legale, nominando il Prof. Ritucci, dell’Istituto di Medicina Legale. (…) Il Ritucci, dunque, prestò giuramento e, quando seppe la natura dell’incarico, se la prese con me – che dovevo aver assunto l’aria del gatto che si è appena mangiato il topo – come se fossi stato io a nominarlo. «Avvocà, quest’incarico è na’ schifezza», cominciò ad osservare. Ma il presidente l’interruppe, ricordandogli: «Il perito d’ufficio deve indagare, accertare e riferire…». Obbiettò il Ritucci: «Ma io che posso fa’? Non posso mica chiudere la signora nel cesso e rimanere dietro la porta … Signo’, avete fatto o non avete fatto? E se non avete fatto, perché non avete fatto?”. Ma il Presidente, implacabile «Il perito d’ufficio deve indagare, accertare e riferire…».
“Per farla breve il Ritucci svolse le operazioni peritali e depositò una perizia – come dire? – possibilista. Tanto mi bastò per redigere una di quelle memorie difensive che, in gergo, si chiamano di stampo terroristico, giacché dirette a terrorizzare la controparte, interpretando le norme in un certo modo e prospettando gli eventi futuri secondo un quadro apocalittico. La Concettina, dunque, non era più in grado di espletare le sue funzioni fisiologiche. Come effetto fisico c’era l’aumento di peso e come effetto psichico la depressione. L’effetto psichico era una vera bomba: depressione reattiva, che poteva generare in depressione maggiore, difficilmente curabile; tra l’altro, c’era da considerare la perdita della capacità sessuale con danno anche per il legittimo consorte”.
L’avvocato non deve arrendersi alla routine e alla banalità del ruolo, ma deve creare il diritto e la tutela delle vittime, anche laddove appare meno plausibile: “Insomma tanto scrissi e insinuai, che l’impresa assicurativa della controparte si spaventò. E arrivammo a una transazione, se ben ricordo, sui sette o otto milioni: somma che, all’epoca, rappresentava un discreto gruzzolo”.

Rimase solo l’onore

Tutto bene, dunque, se non per il fatto che, racconta Giannini, il cliente non passò mai a saldare la parcella del suo brillante avvocato, nonostante telefonate e solleciti: “Mi decisi e un pomeriggio mi recai all’abitazione di Salvatore e Concettina. Suonai, ma la porta restò chiusa. “El terùn l’è andaà via”, mi disse una specie di megera in vestaglia che stava ramazzando le scale. Era tornato al suo paesello, vattelapesca dove. Fu così che vinsi la causa, ma persi i miei onorari”.
La professione dell’avvocato, spesso vituperata specie da chi non ha coscienza delle complessità del vivere il Diritto, offre sempre tanti stimoli alla fantasia e dalla creatività, come insegnano la dottrina e la vita giuridica quotidiana. Il bravo professionista non si arrende al primo ostacolo ma, anche ove la consuetudine gli dice male, interpreta e amalgama la storia: insinua nella fessura il perno che crea la frattura.
La professione intellettuale, in fondo, è proprio questa: la sintesi di conoscenza, genio e intuito al servizio di una utenza spesso povera e sola, in una condotta talvolta avventurosa e molte volte rischiosa, che lascia al fine solo lo stesso avvocato davanti a una professione non sempre remunerativa.
Quale amara soddisfazione in un piccolo capolavoro se poi il cliente scappa senza pagare il giusto prezzo della preparazione e dell’audacia?




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