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La clausola, se non è chiara, può essere abusiva

In caso di scarsa comprensibilità e trasparenza, la Corte di legittimità potrebbe cassare il wording utilizzato. Una sentenza che rischia di destabilizzare il valore del testo contrattuale

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In una decisione dello scorso 23 aprile 2015, la corte di giustizia europea, nella causa 96/14, Jean-Claude Van Hove / Cnp Assurances SA, ha stabilito che le clausole che riguardano l’oggetto principale di un contratto di assicurazione possono essere considerate redatte in modo chiaro e comprensibile, non soltanto se sono grammaticalmente corrette, ma anche, e soprattutto, se espongono in modo trasparente e preciso il funzionamento concreto del meccanismo di assicurazione, tenuto conto dell’insieme contrattuale nel quale si inseriscono.

La Corte ha sancito, così, il principio secondo il quale il consumatore deve essere posto nella condizione di poter valutare, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche che derivano dal contratto di assicurazione; altrimenti la specifica clausola può essere considerata abusiva.

Nella valutazione dell’abusività di una clausola, è stato precisato che il giudice deve dapprima verificare che la stessa sia parte dell’oggetto principale del sistema contrattuale preso in considerazione: una volta accertato ciò, procederà a verificare se la clausola è stata redatta in maniera chiara e comprensibile.

Sul tema della certezza e della trasparenza del testo contrattuale, è intervenuta recentemente anche la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. III, 18.01.2016, n. 668). La Corte ha ribadito e affermato che il contratto di assicurazione deve essere redatto in modo chiaro e comprensibile e che, in presenza di clausole polisenso, è inibito al giudice attribuire ad esse un significato pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dalla disciplina del codice civile.

Una vicenda controversa

Il principio di diritto è stato enunciato dai giudici di legittimità relativamente ad una tormentata controversia insorta in seguito alla distruzione di un’autoclave per la produzione del calcestruzzo, in uno stabilimento industriale, con consequenziali ingentissimi danni, tra i quali anche la morte di una persona.

Oggetto dell’esame della Corte era un contratto di assicurazione contro i danni che descriveva il rischio assicurato nei seguenti termini: “[…] sono oggetto dell’assicurazione i danni materiali alle cose assicurate causati da esplosione e scoppio, non causati da ordigni esplosivi […]”. Il rischio di scoppio era definito come un “repentino dirompersi di contenitori per eccesso di pressione interna di fluidi non dovuto a esplosione; gli effetti del gelo e del colpo d’ariete non sono considerati scoppio”. Il contratto, infine, escludeva l’indennizzabilità dei danni “alla macchina ed all’impianto nel quale si sia verificato uno scoppio, se l’evento è determinato da usura, corrosione o difetti di materiale […]”.
Tuttavia, nel corso dell’istruttoria era emerso che lo scoppio non era stato causato da una eccessiva pressione interna ma, più verosimilmente, da un deficit strutturale del meccanismo di chiusura dell’autoclave.

La Suprema Corte - ribaltando la decisione della Corte d’Appello – ha ritenuto che il danno fosse coperto dalla polizza, nonostante per i coassicuratori il danno fosse riconducibile ad un vizio di costruzione e/o cedimento strutturale (nella specie una difettosa tenuta del portello di chiusura dell’autoclave), in quanto il wording utilizzato non appariva del tutto chiaro.

Eccesso, un concetto relativo

Ebbene, i giudici di legittimità hanno invece evidenziato che, in tema di assicurazione, l’inequivoca chiarezza è imposta dal secolare obbligo di uberrima bona fides gravante su entrambe le parti: espressione di tale obbligo erano, originariamente, gli artt. 1175 e 1375 c.c., ai quali si sono affiancati successivamente sia l’art. 166 Codice delle Assicurazioni (il contratto va redatto in modo chiaro ed esauriente), sia gli artt. 5 e 31 Reg. Isvap del 16.10.2006, n. 5, considerate norme che affermano e rafforzano un principio comunque già presente nell’ordinamento.

Nella fattispecie, i giudici di legittimità si sono soffermati sul significato della parola eccesso per chiarire che “Il lemma 'eccesso' dal punto di vista della logica formale esprime un concetto relativo, non assoluto. Nulla, infatti, può essere 'eccessivo' di per se’, ma può esserlo solo in relazione a qualcos’altro, che costituisca il termine di paragone”. Pertanto, sempre secondo la ricostruzione del giudice di legittimità, “il contratto non stabiliva in alcun modo se la pressione 'eccessiva' fosse soltanto quella superiore al valore massimo tollerabile dal macchinario in condizioni normali di esercizio, ovvero potesse essere anche quella idonea a 'dirompere' (come recita la polizza) un macchinario difettoso”.

Se la polizza è ambigua, paga la compagnia

Per concludere, il principio fondamentale espresso dalla Corte di Giustizia prima e dalla Corte di Cassazione successivamente, consiste nello stabilire che - se i compilatori delle polizze, unilateralmente predisposte, adottano soluzioni lessicali incerte o ambigue - imputet sibi, restando fermamente escluso che possano ricadere sull’assicurato le conseguenze della modestia letteraria o dell’insipienza scrittoria dell’assicuratore.
Ma, se tale principio può apparire comprensibile, a parere di chi scrive, non deve travalicare il valore grammaticale e negare il valore del testo contrattuale. Se sussistono delle precise delimitazioni del rischio e, se risultano scritte in maniera chiara, dovrebbero pur sempre valere.
Nel caso di specie, il termine eccesso di pressione avrebbe dovuto essere interpretato come inteso dalla compagnia e, cioè, come eccesso di pressione rispetto alla ordinaria pressione ritenuta accettabile dal produttore dell’autoclave. Non restando, pertanto, che la via di esercitare un’azione di rivalsa nei confronti dell’azienda produttrice.

Ad ogni buon conto, alla luce della recente giurisprudenza, onde evitare di vedersi eccepire l’inoperatività di una limitazione, si suggerisce alle compagnie di  prestare massima attenzione alla predisposizione di clausole sufficientemente chiare e precise, non solo dal mero punto di vista grammaticale, evitando di enunciare clausole generiche ed indefinite, dovendo inoltre fornire ogni informazione supplementare prevista dall’ordinamento che sia chiara, precisa e necessaria alla comprensione, da parte del contraente, del contenuto effettivo della polizza.



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