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Il perdurante silenzio della Cassazione sul “danno da morte”

La seria incidenza dei sinistri mortali sui bilanci e sulle riserve delle compagnie rischia di indurre passività straordinarie non previste e non prevedibili e ancor meno gestibili, tanto più in assenza di qualsiasi certo parametro liquidativo. Cosa possiamo aspettarci?

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Di tempo ne è passato (e davvero molto) da quel lontano 5 febbraio 2014. Risale a quel giorno l’ordinanza con cui la terza sezione della Suprema Corte di Cassazione chiedeva di sottoporre alle Sezioni Unite la questione della risarcibilità, o meno, del danno da morte immediata (o, meglio, da perdita della vita) a favore del de cuius (e quindi degli eredi, iure haereditario). Risarcibilità propugnata, come noto, dall’ormai celebre sentenza Scarano (n. 1361 del 23 gennaio 2014), la quale, con brusca inversione di marcia rispetto ai precedenti orientamenti di legittimità, aveva sostenuto, alla luce dei valori etico morali che permeerebbero l’attuale sentire sociale, l’intollerabilità del mancato ristoro del danno in assoluto più grave (quello, appunto, da “perdita della vita”).

Sostenibilità economica a rischio

La deflagrante portata della novità, specie nei delicati equilibri dei sistemi obbligatoriamente assicurati, era stata subito ben avvertita soprattutto dai players del mercato assicurativo della Responsabilità civile (e della Rc auto in particolare). La seria incidenza dei sinistri mortali sui bilanci e sulle riserve delle compagnie rischiava, e rischia, di indurre passività straordinarie non previste e non prevedibili e ancor meno gestibili, tanto più in assenza di qualsiasi certo parametro liquidativo. D’altra parte, le stesse possibilità di transigere quelle posizioni di danno venivano, e vengono, fortemente pregiudicate proprio dall’entrata in scena di una posta di danno tanto autorevolmente sostenuta.
Sorgeva, dunque, immediata l’esigenza di comprendere se il danno da perdita della vita potesse davvero trovare spazio, e fosse economicamente sostenibile, all’interno del sistema obbligatoriamente assicurato della Rc auto; un sistema posto a presidio di finalità pubbliche e financo solidaristiche, che ha via via assunto, nel corso del tempo, connotati e caratteristiche prossimi a quelli di una vera e propria assicurazione sociale.

Un’attesa che dura da oltre un anno

Ma al di là di tali aspetti  “prosaicamente” socio economici – ma non per questo meno rilevanti – la tematica del danno da morte immediata assume, di per sé e da sempre, un’ importanza teorica straordinaria, implicando scelte etico giuridiche di enorme complessità e delicatezza e ponendo, al contempo, l’esigenza di armonizzare, se possibile, la soluzione selezionata con i più generali assetti del danno non patrimoniale (così come disegnati, almeno in linea di principio, dalle sentenze gemelle del 11 novembre 2008).
Ecco perché era giusto, ed urgente, che le Sezioni Unite intervenissero sul punto.
E la prontezza con la quale il tema è stato loro sottoposto poteva lasciar intendere che la volontà di fondo fosse quella di ritornare subito nei solchi di partenza e riaffermare il precedentemente orientamento, in quanto ben strutturato e sedimentatosi nel tempo.
Così, all’indomani dell’udienza di discussione (17 giugno 2014), la sensazione dominante, diffusa tra commentatori, tecnici ed operatori, era di un probabile ritorno al passato, nei più sicuri e consolidati approdi della tesi della non risarcibilità di quella voce di danno.
Oggi, a più di un anno di distanza da quell’udienza, ci si comincia ad interrogare sul perché di tanta attesa. E, soprattutto tra gli assicuratori, comincia a percepirsi una certa apprensione circa il possibile esito della vicenda, quasi che la tranquillità sino a poco fa dimostrata cominci a infiltrarsi di preoccupazioni circa la possibilità che la tesi “Scarano” possa trovare avallo, realizzando quel “worst case scenario” che il mercato assicurativo della Rc auto teme, e molto.

Cosa aspettarsi, dunque?

Cosa si cela dietro all’incomprensibile e (sia consentito) censurabile lentezza con cui la Corte Suprema sta affrontando il tema, senza troppo curarsi delle sensibili (e già attuali) ricadute socio economiche sottese?
Difficile azzardare una previsione ma qui si proverà, per puro esercizio di stile, a farlo.

Volendo dar credito a tale ritardo decisionale dovremmo ipotizzare che, come sovente è già accaduto (si pensi proprio alle citate sentenze gemelle di San Martino o alla più recente sentenza delle SS.UU. n. 8620/2015 sul concetto di rischio della circolazione), la Cassazione voglia prendere spunto per effettuare una ricognizione generale e tracciare un affresco a larghe tinte su tutte le problematiche connesse al danno da morte, siano esse esaminate iure proprio o iure hereditario.
Così, prima di arrivare al cuore del problema e alla presa di posizione sul nuovo danno da perdita della vita la sentenza potrebbe, da un lato, tracciare una più chiara e sistematica ricostruzione dei confini (oggettivi e soggettivi) del danno da perdita del rapporto parentale; dall’altro provare a registrare il tema dei cosiddetti danni terminali (biologico o da lucida agonia) fornendone migliori coordinate identificative e ovviando alla anarchia decisionale e liquidativa che, da tempo, si rileva sul punto nelle diverse corti di merito. 

Se il decesso non è immediato

Il tema del decesso non immediato della vittima del sinistro potrebbe poi condurre la Cassazione a occuparsi in termini più lati della complessa tematica afferente all’esigenza di commisurare la liquidazione del danno alla persona all’effettiva vita residua del danneggiato, distinguendo le ipotesi in cui la morte sia, o meno, causalmente riconducibile all’evento illecito.
Ed è possibile ipotizzare che, proprio esplorando la questione relativa al valore dei danni terminali (e comunque della liquidazione del danno biologico maturato prima della morte, quando anch’essa conseguente al sinistro), la Corte venga a considerare la connessa tematica correlata al valore della perdita della vita. Perché, in ultima analisi, è proprio nella valorizzazione di quella perdita che la teoria dei danni terminali trova sostegno, colorando di diverso contenuto quelli che, diversamente opinando, rimarrebbero meri danni temporanei o, prima ancora, poste nemmeno risarcibili; può, d’altra parte, sostenersi che il risarcimento dei danni da fine vita presupponga la considerazione della perdita di chance di vita residua patita (o percepita, in caso di lucida agonia) dalla vittima.  

Tutto per ognuno vs Qualcosa per tutti

Andando avanti nel (fantasioso) esercizio previsionale occorre tornare al centro della questione per chiedersi a quale approdo finale possano infine giungere le Sezioni Unite.
Abbiamo sempre creduto, e continuiamo a credere, che al di là degli artifizi tecnico giuridici che potrebbero sostenere la soluzione prescelta, il tema sia di politica o, prima ancora, di filosofia del diritto. 
Il presente momento storico si connota, ancor più che in passato, per i severi contrasti di coscienza e di principio che contrappongono slanci umanistici (di chi vorrebbe enfatizzare senza compromessi il valore assoluto dei diritti della persona) a una concezione meno idealistica che ammetterebbe la possibilità di arretrare il livello delle tutele individuali, privilegiando un approccio solidale che sappia anche tener conto dell’effettiva disponibilità di risorse limitate.
Tra la logica del tutto per ognuno e quella del qualcosa per tutti, il problema gravita attorno all’esigenza di comprendere quali valori possano essere sacrificati nell’interesse della collettività o se, viceversa, si debba sempre provare a soddisfare il benessere assoluto di ogni singolo individuo.
L’argomento impatta trasversalmente sull’intero ordinamento, influenzando l’organizzazione del sistema di welfare state e incidendo, in ultima analisi, sulla generale esigenza di prevenire e ovviare, per quanto possibile, le inevitabili difficoltà che segnano il normale percorso della vita di ciascuno.

Una responsabilità civile economicamente sostenibile

E anche il sistema della responsabilità civile può essere diversamente inteso a seconda che si pongano in primo piano le esigenze di massima e integrale protezione del danneggiato o che si ritenga che il rimedio risarcitorio debba tener conto anche di più generali equilibri economici, contemperando le esigenze di ristoro della parte lesa con quelle di una sostenibile allocazione dei relativi costi. 
A parere di chi scrive è la seconda opzione che deve esser preferita, abbandonando la tendenza, spesso utopistica, a monetizzare tutto e a ogni costo. D’altra parte l’impossibilità di concepire, prima ancora che di realizzare, equivalenze risarcitorie davvero compensative rende indispensabile, oggi più che mai, comporre le prioritarie esigenze del risarcimento dei danni con la costruzione di un sistema di responsabilità economicamente sostenibile; il tutto liberando risorse utili nell’interesse della collettività e lasciando sullo sfondo istanze etiche, deterrenti o punitive che meglio potrebbero esser presidiate, se del caso, dal sistema amministrativo o penale.  

Risarcimenti più elevati, premi più alti

Le più recenti tendenze legislative in materia di Rc auto paiono, peraltro, figlie di un tale orientamento ed espressione di un sentire sociale del tutto diverso rispetto a quello predicato dalla sentenza n. 1361/2014. E nella stessa direzione si muove, sia pur nel più limitato contesto dei danni lievi alla persona, la sentenza della Corte Costituzionale n. 235/2014, che afferma senza mezzi termini la necessità di correlare il livello dei risarcimenti a quello dei premi assicurativi della Rc auto, intesa quale assicurazione privata (obbligatoriamente) piegata al perseguimento di interessi collettivi e finalità di ordine pubblico. 
In questo contesto il riconoscimento di un nuovo danno da perdita della vita, avente valenza sostanzialmente simbolica e ben difficilmente giustificabile sul piano strettamente logico ed economico, si porrebbe in rapporto di antinomia rispetto ai trend normativi e giurisprudenziali degli ultimi anni. E nel campo delle responsabilità assicurate, ripartirebbe sulla collettività, attraverso l’innalzamento dei premi assicurativi, il costo di riconoscimenti economici niente affatto necessitati e dal dubitevole valore risarcitorio o compensativo.  

Necessaria un’analisi socio economica

Il tutto a tacere dei più tecnici (e tralatizi) argomenti giuridici volti a escludere la ristorabilità, in capo al de cuius, di un pregiudizio che non potrebbe che qualificarsi in termini di danno evento e che neppure sarebbe percepibile da un soggetto che abbia cessato di vivere. In questo senso potrebbero, dunque, concludere le Sezioni Unite, allineando i termini dello stretto ragionamento giuridico alle risultanze di un’analisi socio economica delle più autentiche esigenze (individuali e collettive) del terzo millennio. 
Rimane, naturalmente, la difficoltà di comporre armonicamente tali conclusioni con la miglior intavolatura dei danni terminali, la cui ontologica natura avrà certamente posto le Sezioni Unite davanti a un problema di coordinamento non facilmente risolvibile.


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