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Straining

È una sorta di forma attenuata di mobbing e indica ciò che accade quando il datore di lavoro, o un superiore gerarchico, commettono intenzionalmente una “forzatura” ai danni del lavoratore, con lo scopo preciso di provocare un duraturo peggioramento delle condizioni lavorative di quest’ultimo. In termini di assicurativi, si tratta di un danno non patrimoniale, e proprio per tale ragione esiste una difficoltà oggettiva nel definire l’ammontare del risarcimento dovuto

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Con il termine straining (dall’inglese to strain, che vuol dire forzare, mettere sotto pressione) si indica generalmente la situazione di stress in cui un lavoratore dipendente viene a trovarsi a causa del comportamento ostile e stressante posto in essere dal suo datore di lavoro o da un superiore gerarchico.

I PRONUNCIAMENTI DELLA CASSAZIONE
La sezione Lavoro della Corte di Cassazione Civile si è a più riprese pronunciata su questo fenomeno. Con la sentenza numero 2676 del 4 aprile 2021, ad esempio, è stato chiarito che lo straining “è ravvisabile allorquando il datore adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente, mediante condizioni lavorative stressogene” e che tale fattispecie non si verifica quando l’eventuale situazione di amarezza, provocata e inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai necessari processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano interessato l’azienda datrice di lavoro.
Più recentemente, la Suprema Corte è tornata a esprimersi al riguardo, con l’ordinanza numero 29101/2023, puntualizzando che, nel caso in cui venga accertato lo straining, la domanda di risarcimento del danno debba essere comunque accolta: eventuali reiterazioni, intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta del datore potranno eventualmente incidere sull’ammontare del risarcimento. 
Il lavoratore soggetto a straining, infatti, ha diritto a ottenere il risarcimento del danno patito, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile, trattandosi di violazione del generale obbligo che grava sul datore di lavoro di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti.
In questo solco si era già inquadrata la sentenza numero 3291 del 19 febbraio 2016 della Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte di Appello di Brescia, che aveva accolto la richiesta di risarcimento formulata da una dipendente di un’azienda ospedaliera. In tal caso, la dipendente lamentava di aver subito condotte ostili che, sebbene isolate e distanziate nel tempo, avevano determinato un netto peggioramento delle sue condizioni lavorative.

LE DIFFERENZE CON IL MOBBING 
A prima vista, questo fenomeno potrebbe essere assimilato al più noto concetto di mobbing, ma si differenzia da quest’ultimo per le modalità con le quali si esprime il comportamento vessatorio tenuto a danno del lavoratore.
Nel mobbing, infatti, la condotta lesiva si caratterizza per la sua reiterazione nel tempo, nello straining questo requisito di continuità non è invece richiesto: si ritiene sufficiente che la condotta lesiva sia commessa anche una sola volta, purché la sua intensità sia tale da causare al lavoratore un grave e perdurante stato di stress psicofisico, come potrebbe accadere se lo stesso fosse privato degli strumenti necessari allo svolgimento della sua attività lavorativa o se venisse volutamente isolato dagli altri.
Perché vi sia straining, dunque, è necessario che il datore di lavoro, o un superiore gerarchico, commettano intenzionalmente una forzatura ai danni del lavoratore, con lo scopo preciso di provocare un duraturo peggioramento delle condizioni lavorative di quest’ultimo.
Lo straining lavorativo viene quindi definito in giurisprudenza come quella forma di stress a cui viene sottoposto un dipendente con l’intento di discriminarlo. A differenza del mobbing, non sono necessarie vessazioni reiterate e sistematiche, essendo sufficienti comportamenti vessatori che, anche se non continuativi e costanti, determinino nel dipendente uno stato di oppressione e grave disagio.
Giurisprudenza e dottrina concordano sul fatto che questo comportamento vessatorio costituisca una peculiare patologia del rapporto di lavoro, che si inserisce a metà tra il normale stress occupazionale e il più grave fenomeno del mobbing.
Quanto all’onere probatorio, è comunque richiesto al lavoratore di provare la sussistenza del danno, la nocività dell’ambiente lavorativo e il nesso causale esistente tra le due situazioni.


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IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA STRAINING
Riassumendo, la Corte di Cassazione ha ribadito a più riprese la necessità di proteggere i dipendenti da condotte dannose sul luogo di lavoro e riconosce il diritto al risarcimento dei danni derivanti da azioni lesive della salute e del benessere psicologico del lavoratore, sottolineando l’importanza di una reazione proporzionata all’atto vessatorio subito. A tale riguardo, lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing, perchè non contempla la continuità delle vessazioni subite, ma è sempre riconducibile al disposto dell’articolo 2087 del Codice civile. La relativa domanda di risarcimento deve essere comunque accolta e ciò riconduce il danno che deriva da questo fenomeno all’ambito assicurativo. 
Ma la questione è tutt’altro che semplice da affrontare. Innanzitutto, si tratta di una tipologia di danno non patrimoniale, cioè attinente all’integrità psicofisica, alla dignità, all’identità personale, alla partecipazione alla vita sociale della vittima. Sotto questo profilo, parliamo dei diritti inviolabili garantiti costituzionalmente e per questo estremamente rilevanti sul piano giuridico. Tuttavia, proprio per tale ragione, esiste una difficoltà oggettiva nel definire l’ammontare del risarcimento dovuto. Gli ostacoli che si pongono nel definire l’ampio numero di elementi che possono contraddistinguere il danno non patrimoniale, infatti, determinano un forte disallineamento nelle decisioni delle corti di giustizia, attraverso l’intera penisola. 
La mancanza di certezze sulle cifre da apporre a riserva causa quindi gravi difficoltà, oltre che per i magistrati, anche per i liquidatori delle compagnie di assicurazione. Come sappiamo, per i danni a carattere non patrimoniale, ovvero che non hanno direttamente attinenza con la capacità di produrre reddito della vittima, si rende necessario un tipo di valutazione equitativa da parte della magistratura. Per dirla con le parole della Suprema Corte, si tratta di un giudizio operato allo scopo di ottenere una “compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio” che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”, condotta “con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione”.
Come accade per il danno biologico, che attiene alle categorie di danno non patrimoniale, la legge fornisce criteri certi di liquidazione solo nel caso delle cosiddette micropermanenti, ovvero le lesioni che non superano i 9 punti di invalidità. Per i danni che superino questa soglia, definiti macropermanenti, è invece necessario fare riferimento alle tabelle elaborate dai vari tribunali, come quelle assai note di Milano e di Roma.

TIPI DI ASSICURAZIONE COINVOLTI
Insomma, la liquidazione di questo genere di danni presenta le medesime difficoltà che si incontrano per tutte le altre categorie dei danni non patrimoniali, ma a quali tipi di assicurazione possono fare riferimento questi danni? Così come avviene nel caso del mobbing e in mancanza di una specifica esclusione prevista nel testo di polizza, parliamo di tutti i rami che possono interessare il danno alla persona e coinvolgano la funzione datoriale, in particolare la Rco e la D&O.
Una volta che il lavoratore abbia potuto fornire la prova della sussistenza del danno (che, ricorderemo, incombe su di lui), sarà il datore di lavoro a dover provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dello stesso. A tale proposito va evidenziato che una situazione di forte divergenza sul luogo di lavoro non configura automaticamente una situazione di nocività ambientale riconducibile alla fattispecie dello straining e tale da determinare una responsabilità del datore ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile. 
D’altro canto, non dobbiamo dimenticare che, con l’ordinanza n. 8948/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che la malattia che deriva da mobbing rientri nell’alveo delle malattie professionali non tabellate, in quanto conseguente all’espletamento della prestazione lavorativa e, come tale, coperta dalla tutela assicurativa dell’Inail.
Tuttavia, uno specifico riferimento allo straining, in questo senso, non è ancora stato confermato, nonostante le decisioni che riguardano questo fenomeno siano già numerose e spesso in esse si faccia diretto riferimento al mobbing stesso, in quanto versione più grave dello straining.
Spetterà dunque alla magistratura definire l’ambito di operatività delle polizze di assicurazione che coprono la responsabilità datoriale e la responsabilità (anche penale) dell’azienda, ai sensi della legge 231/2001. Fattispecie, quest’ultima, che come sappiamo rientra nell’ambito della copertura D&O.
Da notare che in molti mercati si sono diffuse le coperture denominate Epli (Employment Practices Liability Insurance), tipi di polizza che coprono le perdite associate alle richieste di risarcimento relative a presunte violazioni dei diritti dei dipendenti nella gestione dei rapporti di lavoro (mobbing,  discriminazione, licenziamento immotivato, privazione di opportunità di carriera, inflizione di disagio emotivo, etc.). Queste polizze non hanno avuto ancora molta fortuna da noi, come coperture separate, ma i rischi da esse trattati rientrano spesso come estensioni nelle polizze D&O.
Chissà che le più recenti decisioni della Suprema Corte non spingano le compagnie a rilanciare coperture più specifiche, come le Epli.

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