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Fertility (may)day

Nel mese scorso si è parlato molto del Fertility day e soprattutto della infelice campagna mediatica promossa dal Ministero della salute, il quale non è stato in grado di sensibilizzare a dovere la popolazione sul reale problema della diminuzione della fecondità (e della natalità) che coinvolge il nostro Paese.

Eppure, al di là delle critiche sorte a causa della campagna pubblicitaria del Ministero, non può negarsi che la questione della denatalità è diventato un problema piuttosto serio che, presto o tardi, avrà serie ripercussioni sull’intero Paese e sul sistema di welfare pubblico (ed in particolare su quello pensionistico).

Il tutto a scapito di quelle generazioni che, già oggi, stanno pagando più di ogni altra le conseguenze economiche e sociali della crisi.
I dati sulla crescita della popolazione, ormai noti da tempo, sono stati recentemente ribaditi dall’ISTAT, il quale nel suo rapporto annuale 2016 ha confermato come l’Italia stia affrontando un’epocale transizione demografica (più accentuata rispetto ad altri paesi europei) in cui si registrano sempre meno nascite (e in età sempre più avanzata), insieme ad un costante aumento della popolazione anziana.

I numeri parlano chiaro.

Nel 2015 è stato registrato un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia con 488 mila nascite (15 mila in meno rispetto all’anno precedente) ed una fecondità in caduta costante per il quinto anno consecutivo con 1,35 figli per donna.

I decessi, invece, sono stati 653 mila (54 mila in più rispetto al 2014), determinando così un saldo naturale decisamente negativo (-165 mila) a cui nemmeno il costante fenomeno migratorio è riuscito a porre rimedio.

Le (possibili) cause: economiche, ma anche culturali

Le cause del calo della fecondità (e, di conseguenza della natalità) sono però molteplici e deriverebbero in buona parte, secondo l’ISTAT, da fattori economico-sociali e non sempre dalla deliberata scelta di diventare genitori sempre più tardi.

Si legge, infatti, dal documento dell’Istituto di statistica che i «rapidi cambiamenti di fecondità, matrimonio, divorzio e convivenza sono legati a un insieme di fattori socio-economici e culturali, che hanno modificato le preferenze individuali, i vincoli e le opportunità. Così, in seguito, la Generazione di transizione [quella dei nati pressappoco negli anni ‘70] e quella del millennio [quelli nati negli anni ’80 fino alla metà degli anni ‘90], manifestano un prolungato rinvio dei ruoli genitoriali a causa di una sempre più elevata età al termine degli studi, del ritardato ingresso nel mercato del lavoro e di una crescente flessibilità [meglio precarietà, ndr] (e insicurezza) dell’occupazione».

Va però precisato che le variazioni demografiche di cui si parla dipenderebbero anche da mutamenti culturali non sempre legati a fattori economici e/o lavorativi. Si pensi, infatti, alla Danimarca, dove anni addietro fu promossa una campagna mediatica di sensibilizzazione simile al Fertility day (ma molto più “accattivante” rispetto a quella italiana). Eppure, nonostante vi fosse una situazione economica diversa rispetto al nostro Paese, anche i danesi non facevano più figli.

Ed infatti, dal report dell’Istituto emerge che la posticipazione della genitorialità dipenderebbe anche da altri fattori, come il livello di istruzione delle donne italiane appartenenti alla “generazione del millennio”: solo una laureata su due è diventata madre entro i 35 anni.
Una cosa è sicura, se la rotta verso il “degiovanimento” non verrà subito invertita, l’intero sistema di welfare pubblico potrebbe trovarsi in serio pericolo, poiché una sempre più ristretta platea di “persone attive” (ovvero di coloro che lavorano e pagano i contributi) si troverà in breve a dover sostenere i bisogni previdenziali e sanitari di una popolazione sempre più vecchia e longeva.

Come si può vedere dalla sequenza delle piramidi delle età della popolazione residente in Italia, già oggi ci troviamo dinanzi ad una struttura instabile dove la base (quella formata dalla popolazione più giovane) si assottiglia sempre di più e, con molta probabilità, non riuscirà a sostenere il peso dei più ampi segmenti posti al livello superiore.



Le soluzioni approntate dal legislatore e alcune considerazioni

Tali scenari, insieme alle sempre più accentuate difficoltà economiche dello Stato, hanno portato il legislatore italiano degli ultimi 25 anni a promuovere politiche (non sempre coerenti o ben definite) di contenimento della spesa riservata al welfare pubblico e, in particolare, quella destinata alla previdenza di base fondata sul c.d. sistema a ripartizione in cui i contributi versati dalla popolazione attiva vengono impiegati per far fronte alle prestazioni pensionistiche dei lavoratori in quiescenza.

Tuttavia, per quanto il legislatore si affanni nel voler ridurre il deficit previdenziale (promuovendo anche il ricorso alla previdenza complementare), il sistema pensionistico pubblico rischierà presto o tardi di bloccarsi dinanzi ai primi effetti del declino demografico in atto. Declino che, lo si ripete, dipenderebbe secondo l’ISTAT non soltanto da mutamenti culturali, ma soprattutto dalle insicurezze sociali dettate dall’allungamento dei tempi necessari per l’ingresso dei giovani nell’età adulta, dall’avvertita carenza dei servizi a sostegno delle famiglie (asili nido, ecc.) ed al costante depauperamento delle retribuzioni, dei redditi e delle tutele dei lavoratori.

È forse banale, ma non inutile, dire che una soluzione a tale problematica potrà essere data dalla messa in campo di politiche più lungimiranti a sostegno dell’occupazione e delle famiglie, le quali – se ben pianificate – potrebbero concorrere indirettamente nel lungo (o forse lunghissimo) periodo alla soluzione di alcune delle problematiche del welfare pubblico.

Nel frattempo, allarmato dagli ultimi dati demografici, il Governo ha già annunciato l’introduzione nella prossima Legge di Stabilità di alcune nuove misure, fra le quali: un bonus per i nati dopo il 1° gennaio 2017 ma erogabile già durante la gravidanza; un “buono nido” fino a circa mille euro; la costituzione di un fondo a garanzia dei prestiti a tasso agevolato in favore delle famiglie per le spese legate all’arrivo di un figlio; maggiori risorse per il c.d. “voucher baby sitter”, ecc.

A tali misure dovrebbe poi seguire l’annunciato progetto per un nuovo Testo Unico per la Famiglia, che dovrebbe avere lo scopo di riordinare e razionalizzare le misure a favore delle famiglie e della natalità, mediante interventi organici nell’intero sistema.  
Insomma, anche se il mondo del lavoro sembrerebbe arrancare (secondo i dati di agosto 2016 dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS), qualcosa parrebbe muoversi riguardo alle misure a sostegno della natalità e delle famiglie.

Staremo a vedere…


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