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Non importa che se ne parli bene o male. L’importante è che se ne parli

E’ con questo famoso aforisma di Oscar Wilde che vorrei introdurre uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni in campo assicurativo: quello del rischio reputazionale. Molte aziende, nonostante i fatti dimostrino il contrario, sono troppo spesso convinte che la reputazione rappresenti un fattore poco incisivo nella valorizzazione di un brand, rischiando di compromettere investimenti e risultati a causa dell’immagine che il pubblico percepisce.

Ho utilizzato volontariamente il concetto di rischio, perché gli assicuratori si stanno muovendo sempre di più per capire se effettivamente la reputazione di un’azienda possa essere valutata e di conseguenza assicurata. Per fare ciò è utile partire dalla percezione che gli imprenditori hanno di questo fenomeno: già una ricerca del 2013 sulle piccole medie imprese inglesi mostrava come la metà degli intervistati ritenesse il rischio reputazionale una preoccupazione presente, anche a livello elevato. Con un interesse crescente verso coperture dedicate a eventi che colpiscono la reputazione. Un ulteriore elemento che ha modificato sostanzialmente il modo di “valutare” le aziende e di farsi un’opinione su di esse è stata la crescita nell’utilizzo dei social media. Ciò nonostante, secondo lo Zurich Risk Index, solo il 30% delle Pmi si sta difendendo dalle conseguenze del passaparola 2.0.

Come ho già sottolineato, le compagnie assicurative stanno cercando soluzioni innovative per la protezione del business. Ma la sfida è complicata dal fatto che ancora oggi le aziende fanno fatica a definire i concetti di brand e di reputazione: in termini assicurativi, per esempio, per una grande società per azioni la reputazione potrebbe essere rappresentata dalla capitalizzazione di mercato; ma per altre tipologie di aziende potrebbe essere più utile proteggersi a fronte dei costi per ovviare a una temporanea situazione di crisi.

Già oggi alcune categorie di prodotti racchiudono coperture che tendono a tutelare la reputazione dell’assicurato: si pensi a tutte quelle polizze Rc che coprono la contaminazione dei prodotti o la product recall. Si sta però parlando, in questi casi, di servizi piuttosto che di indennizzi alle aziende colpite. Per fare un esempio e citare AIRMIC, l’associazione inglese dei risk managers, è come se acquistassimo una polizza per la casa e la copertura prevedesse solo il rimborso del costo dei vigili del fuoco in caso di incendio. Ma non la ricostruzione dell’immobile.

E’ positivo sapere però che le coperture si stanno evolvendo, sulla scorta del concetto di business interruption. Ecco allora che si comincia a dare una forma alla reputazione. Se la mia azienda riesce a vendere a 30 euro un prodotto che genericamente varrebbe 5, allora quei 25 euro di margine sono dati dal valore aggiunto del mio brand, dei miei testimonial, di chi parla bene di me online e offline.

L’assunto iniziale di Oscar Wilde troverebbe oggi molti estimatori. Sono tra i primi a sostenere che sia importante che si parli di un brand e che tutte le casse di risonanza siano utili per aumentarne il valore. Ma anche gli effetti negativi rischiano di propagarsi a catena, rendendo incalcolabile, per gli assicuratori, l’eventuale rischio. Attenzione quindi a procedere per tentativi, perché il rischio di indennizzare in modo non proporzionato è elevato. E in questo periodo di “bolle” vorremmo evitare che scoppiasse anche quella del rischio reputazionale.

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